di Roberto Pagani
Può risultare interessante dar una visione storica d’insieme sulla Grande Quaresima bizantina, al fine di poterne meglio cogliere la struttura intrinseca con le varie stratificazioni accumulatesi nel corso del tempo. Mentre è possibile analizzare la liturgia di Gerusalemme a partire dal IV sec. in avanti, per quanto riguarda Costantinopoli e la liturgia bizantina questo non è possibile, e lo è a maggior ragione per l’anno liturgico. Se è vero che la nostra più antica tradizione manoscritta è un Euchològion contenente le preghiere sacerdotali che risale all’VIII sec. ed è stato copiato nell’Italia meridionale, la nostra migliore fonte per l’anno liturgico a Costantinopoli è il Typikòn di Santa Sofia che si può far risalire alla fine del X sec., copiato da manoscritti provenienti da Gerusalemme (X sec.) e Patmos (fine IX sec.).
Già le Costituzioni Apostoliche, dell’ultima decade del IV sec. separano la Quaresima dai sei giorni del digiuno pasquale, e che il sabato e la domenica tra questi due digiuni non appartengono a nessuno dei due. Questa tradizione si è conservata nel rito bizantino odierno. La Quaresima, nell’interpretazione più stretta, consiste in un periodo di quaranta giorni che inizia un lunedì e finisce ai vesperi del venerdì di sei settimane dopo.
Nell’uso bizantino si è sempre evitata la celebrazione dell’eucaristia nei giorni di digiuno. Perciò durante la Quaresima l’eucaristia viene celebrata solo il sabato e la domenica (oltre il 25 marzo, la cui eccezione è regolata dal concilio in Trullo). Durante questi sabati e domeniche di Quaresima la lettura corsiva delle epistole si incentra sulla Lettera agli Ebrei, mentre questo è il periodo principale per la lettura corsiva dell’Evangelo di Marco, di probabile derivazione alessandrina. La tradizione bizantina è famosa per aver conservato l’usanza della lettura corsiva: tutto il Nuovo Testamento, con l’unica eccezione dell’Apocalisse, viene letto nel corso di un solo anno. L’unica eccezione a questa lettura marciana nei sabati e domeniche di Quaresima è la prima domenica (cioè la domenica alla fine della prima settimana), che è oggi diventata la festa dell’Ortodossia, ma che nel Tipykòn prima citato è una festa dei profeti Mosè, Aronne e Samuele. A parte questo, è facile intravedere nella presente struttura delle letture neotestamentarie il contenuto biblico della liturgia a Costantinopoli risalente a un periodo molto antico nella storia di questa città. È solo alla fine dei quaranta giorni, il sabato della sesta settimana, il sabato di Lazzaro, che la lettura evangelica è tratta da Giovanni (unica fonte per la risurrezione di Lazzaro), così come giovannea è la lettura evangelica del giorno seguente, la domenica delle Palme, in quanto correlata cronologicamente con la settimana di Passione.
Tutta la sesta settimana di digiuno viene designata settimana delle Palme nei manoscritti del IX e X sec., e finisce nel sabato di Lazzaro e nella domenica delle Palme, e rappresenta per sé stessa la conclusione della Quaresima, così come facilmente riscontrabile in una serie di strofe che si cantano nei vesperi del venerdì.
C’è una ulteriore particolarità che va menzionata. È sicuramente comune a tutte le tradizioni cristiane la connotazione di preparazione all’iniziazione cristiana culminante nella veglia pasquale. Ma sorprendentemente il sabato di Lazzaro consiste in una completa liturgia iniziatoria, condotta dal patriarca nel piccolo battistero a conclusione del Mattutino. Prova ne è la conservazione fino ad oggi del canto di entrata, quello dell’attuale piccolo ingresso, proprio delle liturgie battesimali: “Quanti siamo stati battezzati in Cristo, di Cristo ci siamo rivestiti! Alleluia”, che sostituisce il Trisàghion cantato normalmente.
Va fatta un’ultima considerazione relativamente al rapporto tra Quaresima e penitenza. Che la Quaresima fosse un tempo per gli esercizi pubblici dei penitenti può essere già implicito nella seconda decade del V sec. nelle varie tradizioni. La storia della Quaresima mostra infatti quello che sembra essere uno spostamento di enfasi dalla preparazione per il battesimo a una celebrazione pubblica penitenziale associata a quelli che un tempo erano esercizi per i penitenti che cercavano la riconciliazione formale con la chiesa durante la settimana santa. Questo spostamento non è così radicale come potrebbe sembrare. Se letto nel contesto dello sviluppo dei riti dell’iniziazione cristiana, emerge che l’affermarsi del battesimo dei bambini come normale, se non normativo, e il significato poco più che formale delle vestigia degli scrutini battesimali, resero la riconciliazione dei penitenti l’aspetto principale della Quaresima. In entrambi i casi, la partecipazione di tutti i fedeli a questi riti di passaggio rappresenta uno strato autentico della pietà cristiana, riconoscendo che quella che viene offerta grazie alla morte e alla risurrezione del Signore è la redenzione di tutti, non solo di alcuni coinvolti direttamente. Coloro che si avviano alla fede durante il cammino catecumenale, coloro che si sono allontanati dalla comunità di fede e cercano la riconciliazione, coloro che cercano perdono e comunione, sanno che il tempo che precede la Pasqua è un tempo di conversione, tempo di pentimento, che identifica la nostra vita come un movimento continuo teso all’incontro con il Signore risorto che viene, ora e sempre.
Fatta questa doverosa premessa, possiamo passare al contenuto che si è sovrapposto alla struttura delle letture bibliche, e che in questa prima domenica di Quaresima è relativo al “Trionfo dell’Ortodossia”: la grande rivolta dell’eresia iconoclasta, che dissolveva il principio fondamentale del cristianesimo (la realtà dell’Incarnazione e della duplice consustanzialità di Gesù, al Padre e all’uomo) è vinta dopo le lotte durate circa un secolo; l’ortodossia è ristabilita l’11 marzo 843, da qui la scelta pressoché immediata di collegare alla prima domenica di Quaresima il ricordo annuale di questo importante momento della storia della Chiesa.
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La pericope evangelica domenicale è Gv 1, 44-52:
Il giorno dopo Gesù aveva stabilito di partire per la Galilea; incontrò Filippo e gli disse: “Seguimi”. Filippo era di Betsàida, la città di Andrea e di Pietro. Filippo incontrò Natanaèle e gli disse: “Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè nella Legge e i Profeti, Gesù, figlio di Giuseppe di Nazaret”. Natanaèle esclamò: “Da Nazaret può mai venire qualcosa di buono?”. Filippo gli rispose: “Vieni e vedi”. Gesù intanto, visto Natanaèle che gli veniva incontro, disse di lui: “Ecco davvero un Israelita in cui non c’è falsità”. Natanaèle gli domandò: “Come mi conosci?”. Gli rispose Gesù: “Prima che Filippo ti chiamasse, io ti ho visto quando eri sotto il fico”. Gli replicò Natanaèle: “Rabbì, tu sei il Figlio di Dio, tu sei il re d’Israele!”. Gli rispose Gesù: “Perché ti ho detto che ti avevo visto sotto il fico, credi? Vedrai cose maggiori di queste!”. Poi gli disse: “In verità, in verità vi dico: vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sul Figlio dell’uomo”.
San Giovanni Crisostomo, commentando questo brano, sottolinea con meraviglia l’immediatezza con cui Filippo aderisce all’invito di Gesù: è sufficiente un semplice “Seguimi!”, e subito, obbedendo, inizia a predicarlo. Il suo “abbiamo trovato”, denota sicuramente un’attesa, una ricerca mai sopita. Per dare autorevolezza alla sua affermazione, Filippo presenta Gesù come colui di cui Mosè e i Profeti hanno parlato. Natanaèle, il futuro apostolo Bartolomeo, riceve una notizia sconcertante e, a prima vista, poco credibile: anche chi poi lo seguirà e darà la sua vita per lui, fa fatica a riconoscere in Gesù il Messia, colui che era atteso da Israele, e che appare sulla scena in vesti così “normali”, quotidiane, dando l’impressione di una vicinanza che mal si combinava con l’idea generata dal messianismo a loro contemporaneo. La Galilea, al tempo di Gesù, era una terra di eretici, di rivoluzionari, non era per nulla considerata come una scuola di formazione per dottori della legge, ma ciò non impedisce a Natanaèle di intuire che Filippo intenda proprio parlare del Messia e che, scritture alla mano, Nazaret non era sicuramente tra i posti più probabili dove il Messia avrebbe potuto nascere.
La risposta di Filippo all’amico diffidente è il migliore metodo missionario: più che parole, concetti o idee, è l’esperienza di un incontro, il coinvolgimento in un rapporto, l’esperienza di una amicizia condivisa quella che rende possibile a ciascuno di noi riconoscere Gesù come Cristo e Signore della nostra vita.
Sempre san Giovanni Crisostomo dice al proposito: “Come Andrea, non sapendo rappresentare adeguatamente il tesoro che aveva trovato, né spiegarlo con le sue parole, condusse Pietro da colui che aveva trovato, così anche Filippo non dice per quale ragione egli sia il Cristo e in quale maniera i profeti lo preannunziarono, ma conduce Natanaèle da Gesù, ben sapendo che non se ne sarebbe più staccato, una volta provato il fascino della sua parola e della sua dottrina”.
Il credito che Natanaèle da all’amico Filippo è sufficiente a fargli vincere questo suo dubbio iniziale, e nonostante la fresca ombra offerta dalle foglie del fico che temperava la più che probabile calura del giorno, si muove dalla sua comoda posizione andando verso Gesù. A Gesù basta questo movimento per affermare: “Ecco un vero Israelita, nel quale non c’è falsità”. Dio è pronto a cogliere il minimo desiderio dell’uomo che si mette in cammino verso di lui. Perché Natanaèle viene definito da Gesù un vero Israelita? Mentre Natanaèle non si trattiene dall’esprimere ad alta voce il suo dubbio, Gesù loda l’interlocutore ancora prima di incontrarlo: l’assenza di falsità è da collegare proprio alla disponibilità di Natanaèle di non restare ancorato all’idea di messia condivisa più o meno da tutti, ma di essere disponibile ad un incontro. E lo sguardo di Gesù che convince Natanaèle: l’essere visto da Dio, la certa consapevolezza che siamo sotto il suo sguardo, la forza penetrante di questo sguardo coniugata alla disponibile attesa dell’uomo porta quest’ultimo alla confessione di fede. Il desiderio e l’attesa di Natanaèle dovevano essere davvero intensi, al punto che lo stesso Gesù, quasi stupito, gli dice che potrà fare esperienza di cose ben maggiori di queste. Ecco che dal Messia implicito di Filippo, si passa al Figlio di Dio e Re di Israele della professione di fede di Natanaèle, fino ad arrivare al Figlio dell’uomo di Gesù.
Messia è sicuramente il titolo più diffuso per riferirsi a Gesù di Nazaret. Il Messia è l’unto (Cristo) del Signore, e il suo consacrato per eccellenza è il re di Israele; poi, un po’ alla volta, si trasforma in una figura centrale degli ultimi tempi, cui si sovrapporrà anche quella apocalittica del Figlio dell’uomo. Gesù ha sempre mantenuto un comprensibile riserbo: da una parte evita di attribuirsi il titolo, dall’altra evita una risposta negativa, preoccupandosi costantemente di chiarire che il suo messianismo è quello del Servo di Isaia, cioè non si attua instaurando un regno terreno, ma soffrendo e morendo per la liberazione di tutto il popolo. Ben diversa è invece la situazione relativamente all’altro titolo, quello di Figlio dell’Uomo. Mentre nei Salmi e in Giobbe significa semplicemente uomo, in Ezechiele ha un connotato profetico e in Daniele assume una caratteristica marcatamente apocalittica: da una parte ha una valenza di umanità e di debolezza, dall’altro ha valenza celeste, trascendente. Se troviamo il titolo di Cristo sempre in bocca agli altri e mai sulle labbra di Gesù, l’appellativo Figlio dell’Uomo compare nel NT sempre e solo sulla bocca di Gesù (con un’unica eccezione in At 7, 56): sembrerebbe che il suo uso risalga effettivamente al Gesù storico. Si può dire che l’appellativo Figlio dell’uomo rimandi a tutta la vicenda di Cristo, dalla sua umiliazione alla sua esaltazione: in Gesù il Figlio dell’Uomo atteso come venturo è già venuto e presto ritornerà nel compimento finale.
Possiamo ora volgerci verso il contenuto innografico della domenica che, come già accennato, non è collegato come altre volte al brano evangelico ma vi è sovrapposto, in quanto l’ufficiatura celebra il “Trionfo dell’Ortodossia”.
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Alcune strofe cantate al Lucernario dei Vesperi sono sufficienti per far capire come la tradizione bizantina abbia saputo fondere in maniera incredibile liturgia e teologia, fede e arte, riflessione ed esperienza.
C’è un fondamento teologico alla venerazione alle immagini, che viene richiamato per dare senso a questa venerazione e dare una chiave di lettura dei benefici che dall’icona derivano, non in quanto oggetto in sé, ma come presenza reale del rappresentato. “Tu che per la tua divina natura non puoi essere circoscritto, essendoti incarnato in questi ultimi tempi, o Sovrano, ti sei degnato di venire circoscritto: assumendo infatti la carne, ne hai accettato tutte le proprietà. Noi dunque dipingendo la figura che intende rappresentarti, rendiamo omaggio a tali immagini in vista di colui a cui rimandano, innalzandoci all’amore per te, e ne attingiamo la grazia delle guarigioni seguendo le divine tradizioni degli apostoli”. “La grazia della verità nuovamente risplende. Ciò che un tempo era prefigurato nell’ombra, ora si è apertamente compiuto: poiché, ecco, la Chiesa si riveste dell’icona corporea del Cristo come di abbigliamento ultramondano, delineando la figura della tenda della testimonianza, e tiene salda la fede ortodossa, affinché possedendo anche l’icona di colui a cui rendiamo culto, non ci accada di sviarci. Si rivestano di vergogna quanti così non credono: per noi è infatti gloria la forma di colui che si è incarnato, è piamente venerata, non idolatrata”.
Altre strofe del Lucernario rimandano invece al primo contenuto proprio della domenica, la memoria dei profeti Mosè, Aronne e Samuele: “I profeti dal divino parlare, annunciandoti con la parola e onorandoti con le opere, hanno raccolto il frutto della vita eterna: avendo infatti perseverato nel rifiutare il culto alla creatura al posto di te, Dio Creatore, hanno disdegnato il mondo per annunciarti e si sono conformati alla tua passione da essi stessi preannunciata. Per le loro preghiere, rendici degni di affrontare irreprensibili il corso di questa Quaresima, o unico misericordioso”.
Il tropario proprio della festa, che si canta dopo quello risurrezionale proprio del tono, porta dall’icona alla croce: “Veneriamo la tua immacolata icona, o buono, chiedendo perdono delle nostre colpe, o Cristo Dio, perché volontariamente, nel tuo beneplacito, sei salito nella carne sulla croce per liberare dalla schiavitù del nemico coloro che avevi plasmato”.
Il canone del mattutino è opera di Teofane, monaco che ha composto il suo poema per l’occasione lasciando trasparire, insieme alla gioia per la ritrovata unità della Chiesa, anche la sofferenza per il secolo di lotte che avevano dilaniato il Corpo di Cristo.
“Applaudiamo vedendo questo sommo beneficio: le membra divise del Cristo raccolte in unità, e lodiamo Dio che ci ha concesso la pace”. “Raffigurando in una icona la tua forma divina, proclamiamo chiaramente la tua nascita, o Cristo, i tuoi prodigi indicibili, la tua crocifissione volontaria; i demoni, spaventati, fuggono, e i non ortodossi, quali loro compagni, gemono abbattuti”. “Le icone dei profeti, degli apostoli e dei martiri, le sacre immagini dei santi abbelliscono la Gerusalemme celeste, che risplende della bellezza spirituale del suo Sposo e della Madre Vergine”. Colui che un tempo ha ordinato che ci fosse una tenda della testimonianza, come in una tenda razionale abita in te, lui il solo glorificato, che glorifica il tuo tempio con i prodigi, o Vergine”.
Il kontakion ritorna al fondamento teologico, sempre fermamente unito all’economia della nostra salvezza: “Il Verbo incircoscrivibile del Padre, incarnandosi da te, Madre di Dio, è stato circoscritto e, riportata all’antica forma l’immagine deturpata, l’ha fusa con la divina bellezza. Confessando la salvezza con parole e opere, raffiguriamola”. L’ikos che segue il kontakion fa emergere i temi più antichi della domenica, quelli legati al percorso catecumenale verso il battesimo: “Questo mistero dell’economia fu annunciato dai profeti divinamente ispirati per noi che arriviamo alla fine dei tempi, e ne abbiamo ricevuto l’illuminazione. Per essa conosciamo Dio come unico Dio e Signore, glorificato in tre ipostasi; rendendo culto a lui solo, ci rivestiamo di Cristo, con un’unica fede e un solo battesimo. Confessando la salvezza con parole e opere, raffiguriamola”. Il padre Denis Guillaume, traducendo l’ikos in francese e con ogni probabilità utilizzando il vocabolario slavo ecclesiastico – russo edito a Mosca nel 1899 ha reso l’ultima frase in: “Confessando la salvezza con parole e opere, riacquistiamo la nostra somiglianza con Dio”, riuscendo splendidamente a contestualizzare con questa circonlocuzione tutta la dottrina patristica relativa alla differenziazione tra immagine e somiglianza. La caduta ha offuscato l’immagine e reso l’uomo incapace della somiglianza: il battesimo ricostituisce l’uomo ridonandogli la sua immagine divina in Cristo, mentre riacquisire la somiglianza è il compito affidato all’uomo attraverso la trasfigurazione del creato fino a rendere Cristo tutto in tutti e in tutto.
La strofa che si canta al Gloria delle Lodi ci riporta nel pieno del cammino quaresimale: “Mosè, nel tempo della continenza, ricevette la Legge e si guadagnò il popolo; Elia, digiunando, chiuse i cieli; i tre fanciulli della stirpe di Abramo vinsero col digiuno un tiranno iniquo. Per esso (il digiuno) concedi anche a noi, o Salvatore, di giungere alla resurrezione cantando: Santo, Dio, Santo forte, Santo e immortale, abbi pietà di noi”.
Al termine del mattutino, o della divina liturgia, le rubriche prescrivono una processione con la santa croce e tutte le icone verso il luogo dove verrà proclamato il Synodikon, ovvero gli atti del settimo concilio ecumenico. Durante tale processione si canta un canone di san Teodoro Studita e, arrivati al luogo della proclamazione, dopo il tropario già riportato, si canta la seguente strofa, testimone del tema originario della domenica: “Il coro dei profeti, insieme a Mosè ed Aronne, si rallegra oggi grandemente perché, oltrepassando la profezia, rifulge la croce con la quale ci hai salvati. Per le loro suppliche, o Cristo Dio, salva le nostre anime”.
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