di Roberto Pagani
La preparazione alla Grande Quaresima prosegue con la domenica del Figliol Prodigo, anch’essa debitrice del nome dalla parabola raccontata da Luca (Lc 15, 11-32).
Disse ancora: “Un uomo aveva due figli. Il più giovane disse al padre: Padre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta. E il padre divise tra loro le sostanze. Dopo non molti giorni, il figlio più giovane, raccolte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò le sue sostanze vivendo da dissoluto. Quando ebbe speso tutto, in quel paese venne una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò e si mise a servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube che mangiavano i porci; ma nessuno gliene dava. Allora rientrò in sé stesso e disse: Quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni. Partì e si incamminò verso suo padre. Quando era ancora lontano il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. Ma il padre disse ai servi: Presto, portate qui il vestito più bello e rivestitelo, mettetegli l’anello al dito e i calzari ai piedi. Portate il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato. E cominciarono a far festa. Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò un servo e gli domandò che cosa fosse tutto ciò. Il servo gli rispose: È tornato tuo fratello e il padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo. Egli si arrabbiò, e non voleva entrare. Il padre allora uscì a pregarlo. Ma lui rispose a suo padre: Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando, e tu non mi hai dato mai un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che questo tuo figlio che ha divorato i tuoi averi con le prostitute è tornato, per lui hai ammazzato il vitello grasso. Gli rispose il padre: Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”.
Il paese lontano verso cui si incamminò il secondogenito definisce la nostra condizione. Difficilmente un uomo che non ha mai fatto, seppur brevemente, questa esperienza di sentirsi esiliato, lontano da Dio e dalla vera vita, comprenderà cosa sia il cristianesimo. Così come chi si sente perfettamente a casa sua in questo mondo, che non è mai stato ferito dal desiderio nostalgico di un’altra realtà, difficilmente comprenderà cosa sia il pentimento. Se il pentimento fosse solo un elenco di peccati e trasgressioni, con l’ammissione di colpevolezza di fronte all’accusa formulata da un qualsiasi tribunale, la confessione e l’assoluzione assumerebbero una connotazione giuridica, perdendo una qualsiasi efficacia.
Dio ci ha donato ricchezze meravigliose: la vita e la possibilità di goderne, di darle un senso, di riempirla di amore e di conoscenza; perdendo tutto continuamente, non solo nei peccati e nelle trasgressioni particolari, ma nel peccato di tutti i peccati: preferire il paese lontano alla bellezza della casa del Padre. Per questo la Chiesa, con la pedagogia liturgica, richiama alla memoria quanto ho abbandonato e perduto. E nella memoria posso ritrovare il desiderio e la forza di ritornare.
Particolarmente significativo a questo riguardo è il fatto che nel mattutino, dopo i consueti salmi 134 e 135 che costituiscono il Polyeleos (Lodate il Nome del Signore), le rubriche prevedano il canto del salmo 136 (Lungo i fiumi di Babilonia), cosa che avviene per sole tre domeniche l’anno: questa e la due successive. È il salmo dell’esilio. Gli ebrei lo cantavano durante la loro prigionia a Babilonia, pensando a Gerusalemme, la loro città santa. È il canto dell’uomo consapevole del suo esilio lontano da Dio: non può sentirsi pienamente appagato da nessuna cosa in questo mondo, perché si sente attratto dall’Assoluto. Nostalgia che viene commoventemene espressa dalla melodia su cui il salmo viene usualmente cantato nella Chiesa russa.
“Mi leverò e andrò da mio padre”: forse la cosa più difficile è ammettere di avere sbagliato, e quante conseguenze ha questa incapacità nella vita familiare, nell’educazione dei figli, nella comunità cristiana, nella società. “Ho peccato contro il cielo e contro di te”: inizia una nuova vita, da quel momento preciso. La disperazione che porta al suicidio, più o meno cosciente ed esplicito, lascia il posto ad una pace serena, piena di gioia e di riconoscenza. La confessione non è solo nei propri confronti, quasi cercando un’autoassoluzione: è necessario andare davanti al Padre, nella confidenza certa che egli ci accoglierà a braccia aperte; anzi, ci sta aspettando.
Negli uffici liturgici, il soggetto liturgico si identifica con il tipo evangelico: sono io il figlio che si era perduto. La prima strofa del Lucernario è una metafora agricola. “Dopo aver mietuto le spighe della negligenza, ho ammassato i mucchi di covoni delle mie opere, che ho anche disteso, ma non sull’aia della penitenza. Col vento della tua benevola compassione, disperdi come pula la paglia delle mie opere, e dà alla mia anima il frumento della remissione, rinchiudendomi nel tuo celeste granaio”. Sono io il seminatore di zizzania e il cattivo mietitore: il peccato non viene dal mondo, viene da me; il peccato non è il paese lontano, ma è l’aver abbandonato completamente la propria casa, nella presunzione di un’autosufficienza, mentre la propria sostanza si consuma progressivamente fino ad esaurirsi quando si rimane lontani dal datore della vita. Il figlio dissipa la sua sostanza, tutto quello che aveva, vivendo da dissoluto. Ma sciupa anche sé stesso, esaurisce il suo essere, la sua persona. Il dono paterno viene dilapidato in un paese lontano, dove sopraggiunge una carestia, in cui il figlio, estenuato, non può trovare altra risorsa che servire qualcuno diverso da suo padre, con una occupazione vergognosa per un ebreo, in quanto l’allevamento dei porci era proibito (Lv 11 e Dt 14). Egli avrebbe voluto saziarsi, riempirsi il ventre, la parte fisica della sua sostanza dilapidata, ma nessuno gliene dava. Dal paese lontano che non nutre la persona se non omogeneizzandola fino a ridurla a pascolare i porci, il figlio matura il proposito di avviarsi sulla strada del ritorno alla casa del Padre. Il ritorno in sé stesso provoca l’esame di coscienza e il desiderio di salvarsi.
La seconda strofa passa dalla prima persona singolare alla prima plurale: non è più il peccatore che parla, ma la Chiesa: “Riconosciamo, fratelli, la potenza del mistero: il Padre buono va incontro per primo al figlio dissoluto che dal peccato stava ritornando nella casa paterna; lo abbraccia e gli ridona i segni distintivi della propria gloria. Colma di gioia mistica coloro che sono in alto, immolando il vitello grasso affinché noi stessi conduciamo una vita degna del Padre, filantropo che sacrifica, e della vittima gloriosa, il Salvatore delle nostre anime”.
Nella strofa degli Aposticha, ammettiamo che “sono finito a pascermi insieme alle bestie senza ragione e, pur bramando il loro cibo, soffrivo la fame senza potermi saziare”. Tutto ciò che il mondo può darci, pur nella sua desiderabilità, non arriva a saziarci della fame più profonda. Sant’Ambrogio, nel suo commento all’evangelo di Luca, relaziona le carrube, cibo che all’inizio sembra saziare ma che poi ci lascia più vuoti di prima perché privo di sostanza, al “pane di vita, quello che Gesù, il dispensiere del Padre”, ci dona continuamente. Così il vitello grasso diviene immagine di Cristo, l’Agnello immolato: il figlio confessa apertamente al Padre il proprio peccato, e “restituito dal sacramento alla comunione dei misteri, egli potrà nutrirsi della carne del Signore”.
Sia il brano evangelico che i testi dell’ufficiatura presentano il pentimento del peccatore, seguito dal perdono di Dio, come una risurrezione. La volontà del peccatore precede l’attuarsi della salvezza; il movimento è di duplice natura: ritornare in sé, voler ritornare presso il Padre, perché “io qui muoio di fame”. Il peccato porta immediatamente l’uomo alla morte, il cui sinonimo è la perdizione. La rinuncia al diritto di figliolanza comporta la servitù a un ordine politico in cui non c’è più nessun dono, in cui il cibo si deve comprare. Fuori dalla presenza di Dio, l’uomo perde ciò che ha e ciò che è. Presso il Padre, il figlio possiede tutto, anche ciò che è del Padre. Le conseguenze del pentimento e della confessione provocano subito lo sguardo e la compassione di Dio. Dio fa ancora una volta dipendere da una facoltà umana il suo intervento, preferisce aspettare, vigilare nell’attesa, per poi correre incontro.
La terza strofa lucernale ritorna alla prima persona singolare, riassumendo al contempo un tono penitenziale: il peccato è lo stesso di Adamo e comporta l’esclusione dal Regno. Le nostre opere non possono che portarci al fuoco eterno, e prima del Giudizio dobbiamo invocare la misericordia divina, unica nostra possibilità di salvezza. “Oh me infelice, di quali beni mi sono privato! Me misero, da quale regno sono decaduto! Ho dilapidato la ricchezza che avevo ricevuto, ho trasgredito il comandamento. Ahimè, anima miserabile! Sei condannata al fuoco eterno: perciò, prima della fine, grida a Cristo nostro Dio: accogli anche me come il figlio dissoluto, e abbi pietà di me!”. L’uomo può voler sottrarsi allo sguardo di Dio, come Adamo ed Eva avevano fatto nel paradiso terrestre, cercando di nascondersi agli occhi del Signore prima di venire esiliati. Ogni peccato è un allontanamento dal Regno, da qui può essere collegato al peccato adamitico, e comunque al fare buon uso dei doni del Regno. La salvezza che accompagna il perdono è un ristabilimento nella dignità originale: la conversione è un ritorno nella casa del Padre, il peccatore pentito e assolto non riceve qualcosa di nuovo, ma è restaurato nella gioia e nella gloria che erano la sua eredità prima della sua partenza. Se rientrare in sé stesso per ritrovarvi il ricordo della casa paterna porta alla conversione verso Dio, questa fa scattare lo slancio di Dio verso il peccatore, qualunque possa essere la distanza che li separa. Il ritorno del figlio suscita una uscita di Dio fuori dalla sua casa per accoglierlo nelle dimore eterne: questa processione divina corrisponde per il peccatore a una restaurazione regale: il Padre gli ridà la dignità di figlio, prima ancora di ristabilirlo nel Regno. Questo movimento verso l’uomo, l’abbraccio, il bacio, manifestano l’amore divino che annulla gli effetti del peccato, della lontananza colpevole. Il Padre non dice nulla, mostra il suo perdono con una accoglienza non solo spirituale, ma anche fisica. Non c’è nessuna parola di assoluzione. Ma per il peccatore, e sotto la visuale sacramentale, la confessione rimane necessaria, come parte integrante della conversione che è il fine del pentimento: anche dopo essere stato ricevuto con amore nelle braccia del Padre e dopo essere stato perdonato di fatto, il figlio peccatore gli confessa la sua colpa. E pronuncia su di sé un giudizio che è una confessione di umiltà: non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Dopo essere stato abbracciato, perdonato e riconosciuto dal Padre, il figlio confessa il suo duplice peccato, oggettivo e personale, e la sua umiltà, in sottomissione totale. Un secondo effetto della conversione del peccatore è la gioia, non solo quella del Padre, ma anche quella di tutta la casa di Dio che viene invitata a far festa e rallegrarsi. Il Regno celebra la conversione del peccatore, la sua risurrezione.
Il canone del mattutino è opera di Giuseppe l’Innografo, e riprende amplificandoli i temi già emersi nel Vespero. Essere fuori di sé è un carattere dominante del figlio: sciupare i propri beni in una maniera insensata nel mondo significa svuotare il proprio cuore, non essere più sé stessi, e ci si dispera, se non si ha più sufficiente energia spirituale per ritornare in sé e intraprendere il ritorno alla sorgente della vita. Questo è chiarissimo nella terza ode: “Interamente fuori da me stesso”, “alienato”, “mi sono attaccato allo straniero”.
Sempre nella terza ode viene evidenziato anche il rapporto tra bene e bello: etica ed estetica sono profondamente uniti. “Rendi fertile di virtù il mio intelletto reso sterile, o coltivatore del bello, giardiniere di bontà, nel tuo compassionevole bene”. Così chiediamo a Maria “bella fra le donne”, di “arricchirci di forme di bellezza, noi che ci siamo impoveriti dai molti peccati”.
Il peccato è il brutto, il deforme, e porta a dilapidare anche la bellezza. “Ho dissipato nel male la ricchezza di bene che mi hai data, asservendomi agli stranieri” (quarta ode). Quando si è fuori dal Regno si perde la libertà. La persona che abbandona la casa paterna per poi uscire da sé stessa, cade nella servitù. L’uomo è libero solo presso Dio: solo lì egli è in sé stesso ed è sé stesso, mentre essere fuori di sé vuol dire farsi schiavi del mondo. “Sono schiavo di tutti i vizi, perché mi sono disgraziatamente sottomesso agli artefici di passioni, e sono fuori di me stesso per la negligenza” (quarta ode).
L’atteggiamento del penitente descritto in questi inni richiama non solo quello del Pubblicano ma anche quello di Adamo. “Sono tutto pieno di vergogna, e non oso fissare la volta dei cieli” (quarta ode), “non oso fissare in alto lo sguardo, o Cristo, perché ti ho enormemente provocato” (quinta ode).
Ma gli accenti penitenziali sono sapientemente alternati a quelli della speranza nella bontà di Dio: “Passata la notte, il giorno si avvicina, e risplende la luce sul mondo” (quinta ode); “sono chiuso nell’abisso dei peccati, o Salvatore, e affondo nell’oceano della vita: ma tu, come hai tratto Giona fuori dal mostro marino, così trai anche me fuori dalle passioni, e salvami” (sesta ode).
Nella nona ode troviamo il tema della kènosi: “Tu che volontariamente ti sei fatto povero per me, arricchiscimi, o Signore, ora che sono divenuto povero di ogni opera buona, con l’abbondanza dei beni”. La consapevolezza del mio stato deve coesistere con la fiduciosa speranza nella misericordia di Dio: “Guarda, o Cristo, la tribolazione del mio cuore, guarda alla mia conversione, guarda le mie lacrime, o Salvatore, e non mi disprezzare. Nella tua amorosa compassione, accoglimi di nuovo nelle tue braccia, associandomi alla moltitudine degli eletti”. “Come il ladrone ti dico: ricordati di me! Come il pubblicano confuso mi batto il petto e grido: siimi propizio! Come il figliol prodigo, liberami, o pietosissimo, da tutti i miei mali”.
La strofa che si canta al Gloria delle Lodi ricapitola quanto precede e stabilisce un parallelo tra le braccia spalancate del Padre e quello di Cristo distese sulla croce, facendo così un evidente riferimento pasquale che si personalizza in ciascuno di noi col sacramento del battesimo: “Padre buono, mi sono allontanato da te: non abbandonarmi, non dichiararmi inadatto per il tuo Regno. Il nemico maligno mi ha spogliato, togliendomi la mia ricchezza; ho dissipato da dissoluto le grazie della mia anima, ma ora mi sono risollevato, e tornando a te grido: trattami come uno dei tuoi mercenari, tu che per me hai disteso sulla croce le tue mani immacolate per strapparmi alla belva tremenda, e rivestimi della prima veste, perché tu solo sei pieno di misericordia”.
La moderna esegesi, riprendendo alcuni temi patristici, ha sottolineato come non sia il solo figlio ad essere prodigo; ciascuno dei tre protagonisti della parabola, il padre e i due figli, è a suo modo prodigo: il padre lo è sicuramente di amore, di perdono, di misericordia, il figlio minore è prodigo di peccato e di pentimento, ma anche il figlio maggiore è sicuramente prodigo di orgoglio, cui però, invece del pentimento, accompagna il risentimento e l’invidia. Egli non riesce ad accettare come colui che ha dissipato il patrimonio familiare sia riaccolto in casa, gli sia ridata la dignità di figlio (l’anello), la libertà (i calzari, dato che gli schiavi andavano scalzi), e che addirittura si festeggi. Se il vitello grasso ha una valenza eucaristica, il capretto richiesto dal figlio maggiore, nella sua memoria dell’agnello pasquale, può essere il segno di una perdita di consapevolezza: l’eucaristia è un dono più che un diritto. La rigida logica del merito che il figlio maggiore rivendica, basata sul rigoroso rispetto di diritti e doveri e il conseguente disprezzo per trasgressori e trasgressioni, è diametralmente opposta alla logica del padre, che è la logica dell’amore, dove giustizia e diritto sono positivi solo se si compiono nell’amore, nel dono, nella comunione.
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