di Roberto Pagani
La preparazione alla Grande Quaresima prosegue con la domenica del Giudizio finale, che prende il nome di domenica di Carnevale perché nella settimana che segue è previsto dalla chiesa un digiuno limitato, l’astensione dalla carne: potendo quindi mangiare cibi derivati dal latte, questa settimana viene tradizionalmente chiamata dei Latticini. In vista del grande sforzo quaresimale, la chiesa ci prepara introducendoci gradualmente, conoscendo la nostra fragilità e prevedendo la nostra debolezza spirituale.
La pericope evangelica del giorno è la parabola del giudizio finale (Mt 25, 31-46).
“Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria con tutti i suoi angeli, si siederà sul trono della sua gloria. E saranno riunite davanti a lui tutte le genti, ed egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri, e porrà le pecore alla sua destra e i capri alla sinistra. Allora il re dirà a quelli che stanno alla sua destra: Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo. Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi. Allora i giusti gli risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo ospitato, o nudo e ti abbiamo vestito? E quando ti abbiamo visto ammalato o in carcere e siamo venuti a visitarti? Rispondendo, il re dirà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me. Poi dirà a quelli alla sua sinistra: Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli. Perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare; ho avuto sete e non mi avete dato da bere; ero forestiero e non mi avete ospitato, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato. Anch’essi allora risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo visto affamato o assetato o forestiero o nudo o malato o in carcere e non ti abbiamo assistito? Ma egli risponderà: In verità vi dico: ogni volta che non avete fatto queste cose a uno di questi miei fratelli più piccoli, non l’avete fatto a me. E se ne andranno, questi al supplizio eterno, e i giusti alla vita eterna”.
L’amore sarà il criterio con cui verremo giudicati. Non un amore generico verso i poveri, la classe, la razza, il sociale o il politico, ma un amore concreto e personale, rivolto a ogni persona che Dio mi fa incontrare nella mia vita. I cristiani sono sicuramente chiamati a costruire una società più giusta, equa ed umana, usando al meglio le proprie capacità e intelligenza, ma l’amore cristiano è un’altra cosa, e non comprenderlo adeguatamente ridurrebbe la chiesa ad una agenzia sociale. L’amore, come Teresa di Calcutta ha mirabilmente insegnato attraverso la sua vita, è amare Cristo a tal punto da amare ogni persona vedendo in lui, per quanto impossibile, lo stesso Cristo. Così per ogni persona che Dio, nel suo progetto misterioso ed eterno, ha introdotto nella mia vita, fosse pure per qualche istante: non è quindi questione di buone azioni, o di semplice filantropia, ma l’inizio di una eterna solidarietà in Dio. Non vi è amore impersonale, perché l’amore è la meravigliosa scoperta della persona nell’uomo, di quanto nell’uomo è degno di amore in quanto viene da Dio. Per l’attivista sociale l’oggetto dell’amore non è la persona ma l’uomo, un’unità astratta di una non meno astratta umanità: qui la persona è ridotta a uomo, mentre per il cristiano l’uomo è degno di amore in quanto persona. L’attivista sociale è sempre rivolto al futuro, in nome di una felicità, di un ordine, di una giustizia ancora da realizzare, sacrificando magari ad essa “qualche” singolo individuo. Nonostante i cristiani abbiano spesso dato impressione del contrario, al discepolo di Cristo interessa davvero poco di questo futuro problematico, ma è tutto teso all’ora presente, hic et nunc, l’unico tempo decisivo per l’amore. Non che i due atteggiamenti si escludano a vicenda, ma non bisogna assolutamente confonderli. Tutti gli uomini hanno bisogno di questo amore personale, in cui si riflette in modo unico la bellezza dell’intera creazione. E per quanto sia ristretto o limitato l’ambito della nostra esistenza personale, ciascuno di noi ha ricevuto proprio dal dono dell’amore di Cristo la responsabilità di una piccola parte del Regno di Dio.
Quando Gesù appare ai suoi discepoli dopo la risurrezione, quasi mai è riconosciuto immediatamente: il suo corpo glorioso sembra manifestarsi in una forma diversa. Gesù ci indica come egli sia presente in ogni persona, e questo è il mistero della sua presenza oggi tra noi. Giovanni Crisostomo dice che più sacro dell’altare in pietra delle chiese è l’altare umano eretto in ogni strada perché lì Cristo si offre a noi. Quelle che ci vengono richieste nell’odierna parabola sono cose semplici: ciascuno può offrire un pezzo di pane, un bicchier d’acqua, una parola di accoglienza, un vestito o una visita. Nessuno è così povero da non poter offrire qualcosa a Cristo nascosto. Chi ha in sé l’amore autentico è come se avesse una scintilla di eterno. Chi ha praticato l’amore verso il fratello vede schiudersi il Regno ove tutto è amore. Chi ha amato ha già iniziato in questa vita a partecipare alla vita eterna perché Dio è amore. L’amore ci rende connaturali con Dio e, quindi, ci introduce nella sua eternità. “Colui che ama già gusta i cieli e la gloria”, scriveva sant’Agostino.
Le strofe cantate al Lucernario dei Vesperi riportano figure tratte dal brano evangelico e dall’Apocalisse, libro che non viene letto nella Liturgia ma che tanto ha ispirato composizioni poetiche dell’ufficiatura.
“Gli uomini, pieni di timore, saranno giudicati, ciascuno secondo le sue opere: allora sii indulgente con noi, facci degni, o Cristo, nella tua amorosa compassione, della sorte dei salvati”. “Suoneranno le trombe, si svuoteranno le tombe, e tutta la stirpe umana risorgerà tremante”. “Signore della gloria, abbi compassione di noi nella tua bontà, e facci della parte di quanti ti hanno amato”. “Piango e mi lamento quando prendo coscienza del fuoco eterno, e dell’incessante dolore che colpirà quanti si saranno macchiati di colpe senza numero e con la loro cattiva volontà avranno provocato la tua somma bontà: fra costoro sono anch’io, il miserabile, sono anzi il primo di loro, ma tu, o Giudice, salvami per la tua misericordia, nella tua amorosa compassione”. “Chi sosterrà quella tremenda sentenza? Ma tu, o Salvatore, unico amico degli uomini, Re dei secoli, prima che giunga la fine, convertimi col pentimento, e abbi pietà di me”.
È evidente che si cerca di far emergere una paura concreta della condanna perché, se fossimo giudicati sulle nostre opere, ne saremmo tutti passibili. La Chiesa fa quindi uso di un mezzo radicale per agire psicologicamente sull’uomo, cosa che la tradizione occidentale ha conosciuto molto bene: si pensi al Dies Irae, al suo terribile testo così ben musicato dai compositori durante i secoli. Sarebbe interessante sviluppare un confronto, ma basti per il momento solo il paragone con l’esapostilario: “Ecco, viene il giorno del Signore onnipotente: chi reggerà al timore della sua parusia? È infatti giorno di furore, è il giorno della fornace ardente, quando il Giudice si assiderà per rendere a ciascuno quanto avranno meritato le sue azioni”. Come si vede la terminologia usata coincide (giorno di furore), ma subito dopo viene indicata la via per potersi salvare: “O mio giustissimo Giudice, e solo misericordiosissimo, accoglimi penitente, per intercessione della Madre di Dio”. Se non fossimo fuori contesto di fronte al fuoco infernale, si potrebbe quasi usare l’analogia della doccia scozzese, con il suo alternarsi di getti d’acqua che passano istantaneamente dai 10° ai 40°. Ci viene anche fornito un prezioso suggerimento nelle strofe rogazionali: “Conoscendo i precetti del Signore, sforziamoci di conformarne la nostra vita”. Allineiamoci ai criteri con cui saremo giudicati: “Diamo da mangiare a coloro che hanno fame, da bere a coloro che hanno sete, vestiamo coloro che sono nudi… perché Colui che verrà a giudicare tutta la terra ci dica: Venite, benedetti dal Padre mio, ricevete il regno preparato per voi”.
Nelle strofe che concludono i Vesperi, l’accento è posto, più che non sulla contrapposizione psicologico-morale, sul presente come momento privilegiato per operare, nella nostra libertà, la scelta della vita: “Ahimè, anima ottenebrata! Cosa aspetti a liberarti dal male? Fino a quando resterai adagiata nell’indolenza? Perché non pensi alla temibile ora della morte? Perché non tremi tutta di fronte al tremendo tribunale del Salvatore? Che scuse potrai portare, che cosa dirai? Le tue opere sono lì a tua accusa: le azioni senza vigore ti accusano. Ormai, o anima, il tempo è giunto: corri, fa presto, grida con fede: Ho peccato, Signore, ho peccato contro di te, ma conosco, o amico degli uomini, la tua tenera compassione; pastore buono, non togliermi dalla parte destra, per la tua grande misericordia”.
A ben vedere, questo tema della scelta decisiva è dominante anche nel Canone del Mattutino, opera di Teodoro Studita, egumeno del monastero costantinopolitano di Stoudion. La morte è presentata come il punto limite di questa scelta, perché oltre ad essa non è possibile nessuna contrizione, nessun pentimento, nessuna richiesta di misericordia: resta solo il comparire davanti al “terribile tribunale di Cristo”, momento in vista del quale durante tutta la vita abbiamo pregato nelle litanie liturgiche per “ricevere una valida difesa”. L’esito del Giudizio non è indifferente al Giudice: salvezza e dannazione, Paradiso e Inferno, non sono scelte equivalenti, perché, come dice San Giovanni Crisostomo nel suo commento a Matteo, per tutti gli uomini si tratta di ricevere in eredità il regno preparato per noi sin dalla fondazione del mondo, mentre il fuoco eterno è stato preparato per il diavolo e tutti i suoi angeli. Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati!
Nella prima ode terrore e speranza si alternano: “Lo stridore di denti, il verme crudele, il fuoco inestinguibile della geenna mi intimoriscono, mi rendono sbigottito”, “Possa anch’io misero udire la tua voce desiderata che chiama i tuoi santi alla gioia, e ottenere l’ineffabile gaudio del regno dei cieli”. Ma arriva il momento in cui, senza giri di parole, si va diritti al nocciolo della questione: “Non entrare in giudizio con me mettendomi innanzi ciò che avrei dovuto fare, chiedendomi conto delle parole e rimproverandomi per i miei impulsi; ma nella tua pietà, senza far conto del male commesso, salvami, onnipotente”. La bilancia della giustizia terrena penderebbe irrimediabilmente a nostro sfavore.
Ma nella terza ode, ci viene riproposto l’oggi come momento favorevole alla nostra salvezza: “Affrettiamoci, piangiamo, riconciliamoci con Dio prima della fine”. “Convèrtiti, gemi anima infelice, prima che abbia termine la festa della vita, prima che il Signore chiuda la porta del talamo”. “Ho peccato, Signore, come mai nessun altro, sono più colpevole di qualsiasi uomo: prima che venga il giudizio, mostrati a me propizio, o amico degli uomini”.
Nel Kathisma che segue la terza ode, al triplice riconoscimento tribunale-giudizio-opere, possiamo fiduciosamente affidarci all’amore trinitario: “Tremendo è il tuo tribunale, giusto il tuo giudizio, e malvagie le mie opere. Ma tu, o misericordioso, previenimi con la tua salvezza”. “Quale difesa presenterò al Re immortale? Con quale fiducia guarderò al Giudice, io il dissoluto? Padre pietoso, Figlio unigenito, Spirito Santo, abbi pietà di me”. Il metropolita Filerete, nel XIX° secolo, amava dire: “Il Padre è l’Amore che crocifigge, il Figlio è l’Amore crocifisso, lo Spirito Santo è la potenza invincibile della Croce”. Per questo, come ci ricorda il tropario dell’ora nona, “La Croce è apparsa come bilancia di giustizia”: è la logica dell’amore, dell’amore folle di Dio, secondo la bellissima espressione di Nicola Cabasilas, dell’amore che usa la croce come sua massima espressività e criterio di giudizio.
Non ci sono artifici umani che consentano di “aggiustare” le cose, come la quarta ode ci richiama: “Imparziale è il tuo giudizio, al tuo tribunale nulla resta nascosto; non lo inganna la forza persuasiva dell’eloquenza dei retori, non c’è l’appoggio di testimoni che falsino il giudizio: perché davanti a te, o Dio, stanno i segreti di tutti”. Emerge anche il tema delle festa, delle nozze, per le quali la veste battesimale è resa inutilizzabile dai molti peccati: “Che io non venga gettato fuori dalla sala di nozze, mani e piedi legati, perché, me misero, ho macchiato la veste dell’incorruttibilità”.
Nella quinta ode sembra che ogni altro tentativo sia inutile: non resta che insistere, nella speranza che tanta insistenza venga premiata: “Risparmia, Signore, risparmia il tuo servo, non consegnarmi ai crudeli torturatori”. “Condona, assolvi, Signore, perdona tutti i miei peccati”. “Risparmia, Signore, risparmia la creatura plasmata da te: ho peccato, assolvimi, perché solo tu sei puro per natura, e nessun altro, all’infuori di te, è senza macchia”.
La sesta ode ci pone di fronte ad una situazione disarmante: “Allora nessuno potrà aiutare, perché Dio sarà giudice: non saranno di aiuto né lo sforzo, né l’arte, né la gloria, né l’amicizia, niente se non il tuo vigore proveniente dalle opere, o anima mia”. Siamo soli, come è solo ogni peccatore, e qualsiasi elemento umano e terrestre non sarà di nessuna utilità se, attraverso le opere, non avremo cercato di vivere la follia dell’amore.
Ma la paura, come ci ricorda la settima ode, non è sufficiente: “Il fuoco inestinguibile mi sconvolge, mi spaventano il crudelissimo stridere dei vermi e l’ade che consuma le anime: eppure non giungo ad essere veramente compunto: ma tu, Signore, Signore, rafforzami col tuo timore, prima che giunga la fine”. Il timore è inutile se non porta al pentimento: “Mi getto ai tuoi piedi e ti offro quali lacrime le mie parole: ho peccato come neppure la meretrice, e come nessun altro sulla terra ho agito iniquamente”. Il patriarca Atenagora di beata memoria, in un bellissimo libro-intervista di Olivier Clement, ripeteva incessantemente: “Molto sarà perdonato a chi ha molto amato!”.
Dio scruta i cuori, non serve mentire, bisogna solo essere umilmente realisti: “Convèrtiti, pèntiti, svela i tuoi peccati nascosti, dì a Dio che sa tutto: tu conosci i miei segreti, o solo Salvatore, tu dunque abbi misericordia di me, come canta Davide, secondo la tua misericordia”.
Nella nona ode, Mosè e Daniele sono punti di riferimento biblici con cui confrontarsi: “Vedendoti di spalle, Mosè era pieno di timore e tremore: e come sosterrò io, nella mia miseria, la vista del tuo volto quando verrai dal cielo?”. “Daniele ha temuto l’ora dell’esame, e cosa mai sentirò io, quando giungerò a quello stesso giorno?”. Sembra quasi non ci sia più speranza: “L’intelletto è ferito, il corpo malato, soffre lo spirito; la ragione è diventata debole, la vita giace morta, la fine è alle porte”.
Dio è buono, ma anche giusto. In attesa di scoprire quale di queste due qualità divine prevalga, dobbiamo convivere nell’antinomia di chi da una parte sa che il giudizio è inevitabile, dall’altra sa che però non è implacabile. Anche se da sole non bastano, le opere sono necessarie, così come necessarie sono fede, speranza e amore, oltre all’aiuto della “Madre di Dio, che molto può verso la benignità del Sovrano”.
Come ricordato più sopra, siamo all’inizio della settimana dei Latticini, e così le strofe delle Lodi inquadrano il digiuno non solo come ascetismo personale, ma come criterio educativo nelle relazioni col prossimo: “Bada, anima mia: digiuni tu? Non usare perfidia col prossimo. Ti astieni dai cibi? Non giudicare il fratello”. Così che l’inizio delle astensioni dal cibo sia accolto addirittura in letizia: “Purifichiamoci fratelli col re delle virtù; accogliamolo con letizia gridando a Cristo Dio: o risorto dai morti, custodiscici liberi da condanna, per dare gloria a te, il solo senza peccato”. Se partiamo dal fatto che l’uomo è peccatore, il quando complessivo non può essere che cupo; ma se partiamo dal recupero in pienezza della volontà salvifica di Dio, l’onere della prova sta a carico di chi afferma che all’inferno c’è qualcuno. Noi abbiamo certezza per quanto riguarda i santi in paradiso, non altrettanto per l’inferno. È certo che in Paradiso ci siano dei nostri consanguinei, mentre non è altrettanto certo per i dannati all’inferno, tranne i demoni, che comunque non sono nostri consanguinei.
Alcuni dicono che l’inferno è pieno, mentre altri preferiscono affermare che la luce dell’Amore divino può rischiarare la più profonda tenebra umana. In questo contesto la speranza porta a sperare che l’opera salvifica di Dio si concluda felicemente. La Chiesa non ha mai condannato nessuno, nemmeno Giuda. Origene, Sergej Bulgakov, Hans Urs von Balthasar hanno parlato di apocatastasi, teoria che abolisce l’inferno: è un mistero imperscrutabile, e il silenzio è l’unico atteggiamento possibile del cristiano. Non si può affermare di nessuno con sicurezza che sia all’inferno. Se la Chiesa ha condannato l’apocatastasi come dottrina, nulla vieta al cristiano di pregare per la salvezza di tutti. Alcuni Padri del deserto pregavano anche per la salvezza dei demoni. I pubblicani e i peccatori ci precederanno nel regno dei cieli, quindi vuol dire che è il Paradiso che è pieno davvero…
Nessun commento:
Posta un commento