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Lo scopo finale della musica non deve essere altro che la gloria di Dio e il sollievo dell'anima (Johann Sebastian Bach)

giovedì 6 marzo 2014

La Divina Liturgia Bizantina 1: L’analisi strutturale delle unità liturgiche

Di Robert F. Taft uno dei maggiori liturgisti e storici della Liturgia del nostro tempo

Con un’ammirabile audacia, gli autori francofoni mettono in piazza una teoria in fìeri affinché i critici la discutano prima di riprendere ciò che rimane e sistemarlo per una seconda edizione. Si coprono il fianco chiamando le loro sortite esquisses, jalons, essais. Le pagine seguenti non sono niente più di questo. Non propongono il metodo per studiare la liturgia, nemmeno una metodologia organica, completa. Sono semplicemente alcune riflessioni sul metodo che nel mio lavoro ho trovato fruttuoso. Allo stato presente della situazione metodo logica, tra i professionisti del nostro mestiere, forse non ci si può aspettare di più.

Tuttavia, il metodo comparativo ha qualcosa in comune con lo strutturalismo: entrambi sono modi di rendere intelligibile attraverso la sistematizzazione. Non c’è comunicazione senza chiarezza, non c’è chiarezza senza comprensione, non c’è comprensione senza organizzazione - e organizzazione significa sistema. La linguistica strutturale, ad esempio, tenta di sviluppare sistemi unificati, “ossature di intelligibilità”, come li chiamo, per scoprire la struttura e le leggi fondamentali di come funziona il linguaggio.

Questo è il motivo per cui gli insegnanti delle elementari sono capaci di insegnare che cosa è un verbo, ed è il motivo per cui, ad un livello molto più sofisticato, degli esperti sono in grado di rovesciare il processo, dal sistema di costruzione alla ricostruzione di linguaggi e di forme linguistiche estinte o anche di intere lingue, a partire da loro frammenti ancora esistenti. Ciò che Lévi-Strauss chiama la “struttura superficiale” può variare da lingua a lingua, ma la “struttura profonda” è comune - e ciò che è comune è il fondamento di tutte le generalizzazioni e il prerequisito dell’intero sistema.

Lévi-Strauss ha applicato questo tipo di analisi allo studio del mito, e credo si possa applicare, mutatis mutandis, allo studio della liturgia. Anche le liturgie hanno una comune “struttura profonda”; anch’esse operano e si sviluppano secondo alcune “leggi” comuni. Per di più, entrambi i metodi sono “comparativi”, cercando di trovare la profonda comunanza sottostante a tutte le differenze individuali che la sistematizzazione permette. Infine, entrambi i sistemi manifestano le stesse caratteristiche: (1) economia di spiegazione; (2) unità di soluzione; (3) abilità nel ricostruire il tutto dai suoi frammenti esistenti; (4) abilità di ricostruire dai primitivi gradi di sviluppo i livelli successivi.

Ci sono tuttavia alcune differenze. Lo strutturalista cerca il significato; io, anzitutto, cerco la struttura stessa. Perché nella storia dello sviluppo liturgico, la struttura sopravvive al significato. Gli elementi sono conservati anche quando il loro significato è perso (conservatorismo), o quando sono divenuti staccati dalla loro originaria collocazione e scopo limitato, acquisendo nel processo nuovi e più ampi significati (universalizzazione). E sono introdotti elementi che non hanno una relazione evidente con altri (arbitrarietà).

Nella storia della spiegazione liturgica, c’è stato tuttavia un movimento contrario dalla struttura all’interpretazione simbolica. La maggior patte dei commentatori liturgici medioevali si occupavano solo del significato, e spesso le loro interpretazioni facevano violenza alla struttura. Nel periodo della Riforma, la struttura fu piegata a servire la teologia. La regola legem credendi lex statuat supplicandi ) fu raggirata, e la teologia definiva, piuttosto che interpretare, il testo e la forma liturgica.

Recentemente si presta più rispetto alla storia e al testo, ma non alla struttura, almeno tra i liturgisti occidentali. Nel mio lavoro cerco di rovesciare questo processo, insistendo con gli strutturalisti sull’importanza dell’analisi immediata della struttura stessa, prima di collegarla ad altre discipline come la storia, la sociologia, o anche la teologia. Queste discipline sono essenziali per la spiegazione del “come” e del “perché”, ma l’analisi strutturale precedente è necessaria per scoprire il “cosa”.

Lo scopo di questo metodo è la comprensione. La “struttura” è semplicemente un modello che rivela come l’oggetto “lavora”. Naturalmente, questa analisi non si fa nel vuoto. Ci dev’essere una dialettica costante tra analisi strutturale e ricerca storica. Descrivo anzitutto l’analisi perché concettualmente viene per prima, anche se non è sempre così nell’esecuzione.

In verità, per me l’analisi strutturale è fondamentalmente un aiuto non solo per la comprensione, ma anche per la ricostruzione storica. Karl Popper ed altri filosofi della scienza hanno proposto che la conoscenza in un campo vada avanti non per l’accumulo di nuovi dati, ma per l’invenzione di nuovi sistemi; non per la verifica di ipotesi, ma per la loro falsificazione. La ripetizione dello stesso esperimento in condizioni identiche per ottenere gli stessi risultati può essere rassicurante, ma non aumenta per niente la nostra comprensione. Ciò che l’aumenta è una nuova struttura di intelligibilità, come quando Einstein rovesciò la fisica newtoniana.

Se la nostra comprensione della liturgia deve aumentare, dobbiamo anche costantemente cercare di piegare e negare le nostre strutture di lavoro, creare nuovi sistemi che producano nuova conoscenza. Sono convinto che uno non possa fare questo ignorando la storia. Negli ultimi anni è diventato comune accusare gli esperti di liturgia di essere solo storici (presumibilmente un insulto) e persino fare la straordinaria affermazione che, nella liturgia, il lavoro storico è già stato fatto. Ma la storia è denigrata solo da chi ne è ignorante. E quelli che pensano che il suo lavoro sia già stato fatto hanno frainteso la natura e gli usi del mestiere.

Se c’è qualcosa che i filosofi ci hanno insegnato negli ultimi anni, è che tutto, comprese le scienze “esatte” o naturali, ha la sua storia, e le cosiddette “leggi scientifiche” sono strutture ipotetiche, prodotti della mente umana. Esse non fanno balzare la realtà agli occhi di ogni osservatore. Piuttosto, sono strutture percepite che cambiano, non perché cambia la realtà, ma perché cambia la percezione. E così la storia è una scienza non degli avvenimenti passati, ma della comprensione attuale. Come ha detto qualcuno, la storia non sono gli eventi, ma gli eventi diventati idee - e le idee sono del presente. Il passato non cambia, ma noi sì, e questo è il motivo per cui il lavoro dello storico è sempre del presente, mai compiuto.

Quindi, la storia liturgica non ha a che fare con il passato, ma con la tradizione, che è una visione genetica del presente, un presente condizionato dalla sua comprensione delle proprie radici. E lo scopo di questa storia non è far tornare il passato (che è impossibile), tanto meno imitarlo (che sarebbe sciocco), ma capire la liturgia che, poiché ha una storia, può essere capita solo in movimento, così come l’unico modo per capire una trottola è farla girare.

Come si adatta l’analisi strutturale come metodo con tutto ciò? Nel mio primo lavoro di storia della liturgia mi è diventato subito chiaro che nello studio di qualsiasi problema bisogna arrivare presto alla formulazione di ipotesi se si vuole arrivare da qualche parte. La conoscenza non è l’accumulazione di dati, ma la percezione delle relazioni che permette ai dati di essere organizzati in modelli intelligibili.

Quanto prima si arriva ad intuire modelli sufficienti per ipotesi di lavoro, tanto più velocemente andranno le cose. Questo è vero anche se l’ipotesi risulta sbagliata. Colombo scoprì che la terra era rotonda prima di salpare-e, se non lo fosse stata, l’avrebbe scoperto abbastanza presto. Più di una volta proseguivo solo per provare una tesi che un’ulteriore ricerca e prova mostrava essere l’opposto della verità. Non importa. Provare è ciò che conduce alla risposta esatta, che è fin dall’inizio dove volevo arrivare.

Ora, in questo processo di formazione delle ipotesi, ho trovato che l’analisi strutturale delle unità liturgiche è il primo passo più utile dopo la raccolta dei dati iniziali. Ho trovato cioè preferibile identificare, isolare e ricostruire ipoteticamente strutture liturgiche individuali, quindi tracciare la loro storia come tale piuttosto che tentare di studiare i riti completi come un’unità in ogni periodo storico. Infatti è stata una mia osservazione costante che le liturgie non crescono regolarmente, come gli organismi viventi. Piuttosto, i loro elementi individuali possiedono una loro vita propria.

Invece di cercare di descrivere o giustificare concettualmente questa procedura, darò semplicemente qualche esempio. Prendendo anzitutto le litanie e la salmodia antifonale, cercherò di mostrare come vorrei usare l’analisi strutturale comparata per ricostruire ipoteticamente le origini e la storia di queste unità. Quindi, nel capitolo seguente, applicherò lo stesso metodo per risolvere un attuale problema storico, la forma originaria della liturgia bizantina.

1. Litanie

Una varietà di forme di preghiera per le intercessioni o “preghiere comuni”, che tradizionalmente concludeva tutte le sinassi cristiane, si trova ancora, a volte in forma confusa o degradata, nelle nostre attuali liturgie.

L’unità fondamentale primitiva è l’invito diaconale a pregare (Oremus) seguito dalla preghiera silenziosa, e concluso da una colletta:

Diacono: Preghiamo.

(Preghiera silenziosa)

Presbitero o vescovo: Colletta.

Almeno in alcuni luoghi e/o tempi, era consuetudine dell’assemblea inginocchiarsi o prostrarsi per il periodo della preghiera silenziosa, quindi alzarsi per la colletta. Vediamo questo, ad esempio, descritto da Cassiano per l’ufficio monastico egiziano alla fine del IV secolo. Nelle preghiere romane talvolta questo veniva fatto esplicitamente dietro i comandi del diacono di inginocchiarsi, poi di alzarsi:

Diacono: Oremus.

Flectamus genua.

(Preghiera silenziosa)

Levate.

Prete: Colletta.

Occasionalmente l’Oremus era ampliato per esprimere le intenzioni per cui pregare: “Oremus pro pontifice nostro N., ut Deus eum custodiat…

La cosiddetta “piccola litania” che abbonda nella tradizione bizantina è un resto fedele di questa struttura: (1) Oremus, (2) comando di alzarsi, (4) colletta, alla quale è stata aggiunta, in alcuni casi, una commemorazione della Madre di Dio (3):

Diacono: (1) Ancora e ancora preghiamo in pace il Signore.

(2) Aiutaci, salvaci, abbi pietà e preservaci, o Dio, con la tua grazia.

(3) Facendo memoria della tutta santa, pura, benedetta e gloriosa Signora, la Madre di Dio ...

Prete: (4) Colletta.

Mateos ha dimostrato che il secondo elemento (2) è una rielaborazione del vecchio comando di alzarsi (Levate). La commemorazione della Theotokos (3) è un’aggiunta successiva alla synapte in solo alcuni casi.

Nelle tradizioni romana ed alessandrina, era usanza ripetere questa unità fondamentale (in tutto o in parte) per le molte intenzioni per cui si pregava.

Si noti anche la forma letteraria: il celebrante indirizza la preghiera a Dio, in nome dell’assemblea, come ministro. O l’assemblea in quanto “popolo sacerdotale” prega Dio come un’unità, sebbene qui ciò sia fatto in silenzio. Quando il diacono parla, si rivolge non a Dio, ma all’assemblea: “Preghiamo”.

Nelle fonti del IV secolo di tradizioni orientali non egiziane, compare un nuovo sviluppo: la litania. Diversa da come potrebbe sembrare inizialmente, è solo un’espansione della primitiva unità (Oremus ... colletta) ancora mantenuta nella tradizione romana, più conservatrice. Infatti la litania non fa che riempire con una serie di suppliche espresse dal diacono ciò che nel più vecchio sistema era un momento di preghiera silenziosa. E dalle Costituzioni apostoliche, dalle Omelie di Crisostomo ad Antiochia e a Costantinopoli, dal Testamentum Domini e da fonti bizantine c’è una ricca testimonianza del fatto che il popolo si inginocchiasse durante la litania, di cui l’ultima pane includeva il comando di alzarsi (levate). La forma letteraria rimane la stessa: il diacono si rivolge al popolo (“Per. .. preghiamo il Signore”), ma nella loro risposta, se espressa, i fedeli si rivolgono a Dio (Kyrie eleison), come fa il celebrante nella preghiera conclusiva.

Un’ulteriore espansione può essere trovata, ad esempio, nelle preghiere dei fedeli (ricostruite) nella tradizione bizantina. Mentre il diacono riempiva il momento precedente di preghiera silenziosa con suppliche affidate al popolo, il celebrante diceva silenziosamente un’orazione pro clero in cui pregava per la grazia di fare ciò che stava per compiere, cioè dire la colletta in nome del popolo. Se la litania concludeva un ufficio, o era per una categoria che stava per essere congedata, la colletta era seguita da un saluto (“Pace a tutti”), da un comando del diacono (“Piegate il capo al Signore”) e dalla “Preghiera di inclinazione” o benedizione finale sulle teste piegate del popolo.

Lo scopo iniziale, e pertanto sufficiente, di questa analisi è semplicemente l’intelligibilità. Ma questa comprensione delle strutture può avere implicazioni più ampie. Non solo può fornire paradigmi per la lettura di testi oscuri e la ricostituzione nella loro forma originaria di resti degradati; può anche aiutare ad identificare un ritmo organico e una teologia della preghiera comunitaria, dei ruoli ministeriali e così via, soggiacenti alle antiche strutture e alla loro forma letteraria.

2. Salmodia antifonale

La salmodia è un’altra area in cui questa analisi può essere esemplificata. Generalmente si crede che “salmodia antifonale” significhi l’alternarsi dei versetti del salmo da parte dell’assemblea o della comunità divisa in due cori. Tale salmodia monastica alternata è descritta da alcuni autori antichi, tra cui Basilio il Grande. Ma questa non è salmodia antifonale.

Da un’analisi delle fonti storiche e dalla liturgia comparata, si ricava che la salmodia antifonale era una forma di salmodia di cattedrale (cioè non monastica) che emerse dal primitivo metodo responsoriale di esecuzione del salmo. Il responsorio consisteva nell’avere i versetti del salmo cantati da un solista e il popolo che rispondeva ad ogni versetto con un singolo versetto di salmo fisso chiamato responsorio. Questo versetto era dapprima intonato dal solista, di modo che il popolo sapesse con che cosa rispondere:

Solista: responsorio

Popolo: responsorio

Solista: versetto 1

Popolo: responsorio

ecc.

Nell’elaborazione antifonale di questa forma biblica originaria, il popolo è diviso in due cori e risponde alternativamente con un ritornello o con un’antifona. Il ritornello è per lo più una composizione ecclesiastica (cioè non biblica), e il salmo finisce con il Gloria Patri. Nella salmodia responsoriale, il responsorio è sempre il versetto di un salmo (o alleluia), e la salmodia non finisce con la dossologia.

Questi sono gli elementi fondamentali; all’interno di tale cornice si possono osservare tutti i tipi di varianti. Alcune volte ci sono due solisti che alternano i versetti del salmo e ogni coro risponde al suo solista. Spesso è usato un ritornello diverso da ogni coro. Se il ritornello è troppo lungo per essere completamente ripetuto dopo ogni versetto, è usata solo la sua parte finale, chiamata nella terminologia tecnica greca akroteleution. All’inizio e alla fine della salmodia, i solisti ed i cori si uniscono a formare un’unità. Dopo il Gloria Patri che segna la fine del salmo, si usa spesso un ritornello diverso, chiamato in greco perisse o “appendice”.

Ecco, ad esempio, una forma di salmodia antifonale trovata nei primi documenti bizantini.

Solisti insieme: ritornello (3 volte)

Lettori e popolo: ritornello (3 volte)

Primo solista: versetto l

Primo coro: ultima parte del ritornello (akroteleution)

Secondo solista: versetto 2

Secondo coro: ultima parte del ritornello

ecc.

Primo solista: Gloria Patri

Primo coro: ultima parte o l’intero ritornello

Solisti insieme: ritornello o perisse

Lettori e popolo: ritornello o perisse

In quasi tutte le tradizioni, la salmodia antifonale fu scomposta, e ciò con cui siamo rimasti sono i frammenti dell’unità originaria. Ma una intuizione della sua forma originaria ci può aiutare a ricostruire l’unità a partire dai suoi frammenti. Un passo nel processo di scomposizione si verifica perché il coro subentra al ruolo del solista. Un altro perché l’unità stessa è abbreviata.

Nell’ufficio romano questo fu fatto sopprimendo il ritornello tranne che all’inizio e alla fine del salmo, lasciando che i cori alternassero solo i versetti del salmo (da qui l’attuale confusione tra salmodia antifonale e salmodia alternata in molti scritti liturgici occidentali. Nelle tradizioni orientali, era più comune che i due cori diventassero uno, e che il ritornello soffocasse la maggior parte o tutto dell’elemento biblico. Vediamo questo, ad esempio, nel Trisagio della liturgia bizantina, attualmente cantato come segue:

1. Santo Dio, santo, forte, santo, immortale, abbi pietà di noi (3 volte).

2. Gloria al Padre ... ora e sempre ...

3. Santo, immortale, abbi pietà di noi.

4. Santo Dio, santo, forte, santo, immortale, abbi pietà di noi.

Ciò che abbiamo qui è l’inizio (l) e la fine (2-4) di un antico salmo antifonale, che include l’akroteleution (3), con i versetti del salmo e i loro ritornelli completamente soppressi.

Si noti la natura popolare della salmodia. Il popolo risponde con un ritornello fisso, facilmente eseguibile. E l’elemento scritturistico, cantato chiaramente e comprensibilmente da un solo solista, non soccombe allo smorzamento corale. La mancata comprensione di queste forme originarie ha portato alla confusione tra salmodia alternata (che è monastica) e antifonale (che è popolare) e all’esecuzione - in un modo spesso incomprensibile dei versetti del salmo da parte del coro invece che del solista, e così via. E ciò provoca frequentemente anche un fraintendimento delle fonti storiche, specialmente per la liturgia delle ore.

3. Analisi strutturale e studio comparato della storia liturgica

L’analisi strutturale unita alla conoscenza della liturgia comparata è anche d’aiuto nel percepire come sono articolate le unità liturgiche e i gruppi di unità, come crescono e come si scompongono. Ho trovato utile questa specie di analisi per decifrare lo stato confuso e disordinato di molte parti liturgiche ancora esistenti e per ricostruire la loro forma originaria.

A volte i liturgisti sono accusati di arcaismo, della sindrome del “più vecchio è meglio”. Quest’accusa è ingiustificata. Lo scopo dell’andare a ritroso non è pervenire il più possibile alle forme temporalmente più remote per imitarle ma, ancora una volta, capire. Si tenta di riandare al punto in cui l’unità che si sta studiando emerge nella sua integrità originaria, prima che cominciasse la scomposizione. Solitamente la scomposizione è provocata da successive aggiunte. Alla fine i riti sovraccaricati, come i circuiti sovraccarichi, fanno saltare un fusibile. Qualcosa finisce per essere tolto, e in questa riduzione del carico liturgico, l’integrità delle unità è raramente rispettata, soprattutto se la loro forma originaria non è più capita, o se esse non sono più eseguite come originariamente erano destinate ad essere. Osservare come questo accade alle strutture liturgiche ci dice qualcosa non solo riguardo al passato, ma anche a proposito delle stesse dinamiche di crescita e cambiamento della liturgia.

Prendiamo un esempio dall’eucarestia. Cercando di capire la storia di come il rituale eucaristico si è evoluto nelle varie tradizioni nel periodo della pre-Riforma, ho sviluppato la seguente struttura di intelligibilità- ciò che Lonergan chiamerebbe, forse, una “struttura euristica” - come modello per comprendere ed organizzare i dati disparati che le fonti offrono. Naturalmente questo non può essere un modello rigido. È semplicemente un ulteriore strumento per aiutare l’interpretazione dei dati della ricerca. La scoperta di dati che contraddicono la struttura e non possono essere spiegati come deviazioni aberranti conduce a modificare la struttura, e la comprensione fa ancora un altro passo.

Inizialmente, dunque, dividerei la storia strutturale del rito eucaristico in alcuni periodi:

1. Nel periodo di formazione iniziale, il “primo strato” di ciò che Dix ha chiamato la classica “forma della liturgia”, emerge dalla metà del II secolo nell’Apologia di Giustino (I, 65, 67):

letture

predica

preghiere comuni

bacio di pace

trasferimento dei doni

anafora

(frazione)

comunione

(congedo)

2. Dopo la pace di Costantino nel 313, entriamo in un nuovo periodo di sviluppo ed arricchimento strutturali, ma anche di unificazione e standardizzazione. L’arricchimento era centrifugo, portando una più grande diversità tra le famiglie; l’unificazione era centripeta, portando ad una maggior standardizzazione all’interno delle famiglie. Scambi reciproci da famiglia a famiglia controbilanciavano entrambe queste forze.

3. In uno stadio successivo della storia liturgica, le famiglie liturgiche continuarono ad evolversi, ma da allora in poi come entità distinte già formate e quindi identificabili, con una loro vita propria relativamente indipendente.

Ora, nonostante la grande diversità nella storia di parecchie famiglie liturgiche, si possono osservare modelli comuni di crescita. Se si confronta lo sviluppo liturgico nel secondo e nel terzo periodo al “primo strato” di Giustino del servizio eucaristico, si vede che l’evoluzione liturgica ha rispettato questo lineamento primitivo nel secondo periodo di sviluppo liturgico, e lo ha violato nel terzo.

Il secondo periodo, il periodo dell’unificazione dei riti, vide un riempimento nello schema fondamentale comune dell’eucarestia nei tre “punti deboli” del rito: (l) prima delle letture, (2) tra la liturgia della parola e la preghiera eucaristica, e (3) alla comunione e al congedo che segue questa preghiera. Nella liturgia primitiva questi erano momenti di azione senza parole: (1) l’entrata in chiesa; (2) il bacio di pace e il trasferimento dei doni; (3) la frazione, la comunione e i riti di congedo.

Dal momento che il cerimoniale e il testo si affrettano a riempire il vuoto dei tre momenti d’azione della liturgia, ricoprendo così la forma primitiva con un “secondo strato” di introito, riti preanaforici e riti di comunione, viene provocato un movimento contrario. La liturgia, così riempita, appare sovraccarica e deve essere ridotta. Ciò che caratterizza questo passo ulteriore è l’abbandono del rispetto precedente per la forma primitiva. Infatti, si può generalmente verificare che gli elementi così ridotti o soppressi non sono mai le aggiunte successive, ma gli elementi del nucleo originario: le letture dell’Antico Testamento, la salmo dia responsoriale tra le letture, le preghiere dopo le letture, il bacio di pace, e così via.

Soltanto un’analisi delle fonti liturgiche di ogni epoca e di ogni area di influenza liturgica o centro di diffusione può fornire i dettagli storici di quando e da dove queste aggiunte successive siano state introdotte. Nel capitolo successivo tenterò di dimostrare come questa analisi strutturale delle unità può aiutare nell’interpretazione delle fonti storiche e nell’identificazione e ricostruzione delle forme liturgiche originarie.

Vedremo una ripetizione fondamentale della stessa struttura di base per tutti e tre i “momenti d’azione” tradizionali della liturgia eucaristica: un’azione rituale (introito, trasferimento o preparazione dei doni, comunione), ricoperta da un canto antifonale e conclusa da una colletta. Ma questo è ciò che troviamo anche nel rito romano, armeno, siro-orientale ecc., una volta tolte via dall’unità fondamentale le aggiunte successive. Penso che questo illustri non solo l’utilità di un approccio strutturale nell’isolare la forma e lo scopo originari nei nostri riti liturgici ormai piuttosto disordinati, ma mostri anche la sottostante comunanza di parecchie tradizioni liturgiche, che l’analisi strutturale comparata rende possibile nello studio della liturgia, come nella linguistica.

Da questa specie di analisi non ho tentato di ricavare qualche implicazione più ampia. Ma in alcuni casi essa può portare ad una radicale reinterpretazione del significato e dello scopo antichi delle unità liturgiche, come si può vedere, credo, nel mio studio sui riti preanaforici bizantini. È ovvia l’importanza di tale reinterpretazione per la comprensione liturgica e quindi per il rinnovamento liturgico. Ed in ogni caso è un processo che credo si debba esaminare attentamente come preludio all’ermeneutica e persino all’esegesi: è impossibile interpretare, se non si conosce ciò che si sta interpretando.

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