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giovedì 15 maggio 2014

La figura di Paisij Veličkovskij

1. Storia di una santità come fermento di umanità
 
Di Padre Elia Citterio
 

La figura di Paisij Veličkovskij è stata riportata all’attenzione della coscienza ecclesiale in questi ultimi anni con la sua canonizzazione da parte della Chiesa Ortodossa russa e romena, rispettivamente nel 1988 e nel 1992. L’opera di questo grande monaco e starets, che guidava una comunità di circa un migliaio di fratelli, ha costituito senza dubbio un avvenimento di prima grandezza nella storia moderna della Chiesa Ortodossa. Qual è l’importanza di questa figura, celebrata ma ancora poco conosciuta tanto tra i cristiani d’oriente che tra quelli d’occidente?
 
Sarà utile anzitutto tracciare alcune coordinate storico-biografiche. Siamo nel 1700, l’epoca dell’illuminismo e della rivoluzione francese nell’Europa occidentale, il secolo delle riforme di Pietro il Grande in Russia, con i Balcani sotto il giogo dei Turchi, nel continuo scontro tra le potenze che si contendono la supremazia nell’Europa orientale: l’impero ottomano, l’Austria e la Russia. Nella prima metà del sec. XVIII, nelle regioni della Podolia e della Volinia, prende avvio il movimento chassidico. Non va dimenticato che nella sua Autobiografia Paisij rivela che suo nonno materno era ebreo.
 
Paisij nasce a Poltava, in Ucraina, la Podolia del tempo, nel 1722, in una famiglia di ecclesiastici ortodossi. Frequenta per quattro anni l’Accademia ecclesiastica di Kiev, ma gli studi, troppo letterari e occidentalizzanti, non lo appassionano più di tanto, sebbene più tardi rimpiangerà di non averli approfonditi. Il suo segreto desiderio è quello di farsi monaco. Per evitare di essere ripescato dalla madre, assolutamente contraria, decide di riparare all’estero, nei territori romeni, alla ricerca di una guida spirituale sotto la cui obbedienza realizzare il suo sogno di vita monastica. Su quella stessa strada era già stato preceduto una generazione prima da tanti suoi compatrioti. In effetti, sul finire del sec. XVII si moltiplicano in Russia le misure restrittive nei confronti del monachesimo, nella linea di una politica di controllo dei beni ecclesiastici. La proibizione di fondare nuovi piccoli insediamenti monastici nel 1682, le misure antiecclesiastiche di Pietro il Grande e dei regnanti successivi nonché una politica uniate perseguita dai polacchi in Ucraina favorirono un flusso di emigrazione monastica russo-ucraina verso i territori romeni, dove i principi si distinguevano nello zelo per il sostegno alla chiesa e al monachesimo, non solo romeno, ma anche athonita e dei Luoghi Santi di Palestina.
 
Paisij arriva nei Principati romeni nel 1743. Ha modo di essere iniziato all’esperienza della vita esicasta allora rifiorente, merito soprattutto di quel Basilio di Poiana Mărului, anch’egli emigrato dall’Ucraina, che allora guidava una dozzina di comunità e che più tardi Paisij chiamerà ‘il suo starets’, essendo lui a consacrarlo monaco nel 1750 sull’Athos e ad istruirlo sul combattimento interiore. All’Athos, dove si sposta nel 1746, risiede per diciassette anni. Attorno a lui si forma una piccola di comunità di dodici fratelli, i primi otto romeni, ai quali si aggiungono quattro slavi, che vedono in lui il maestro e il padre che li istruisce nella via spirituale sulla base delle Scritture e degli scritti dei Padri che con immensi sforzi e grande zelo andava raccogliendo dalle biblioteche dei monasteri athoniti.
 
Ma l’Athos, sotto la giurisdizione amministrativa delle autorità ottomane, attraversava un periodo di decadenza e non garantiva un futuro alla giovane comunità paisiana. Decide così di ritornare nei principati romeni con i suoi ormai 64 monaci e si installa nel 1763 a Dragomirna in Moldavia, con il placet del metropolita Gabriele di Iaşi e del voievod Gregorio Calimachi. In seguito alla conclusione della guerra russo-turca (1768-1774), per la cessione all’Austria di una parte della Moldavia del nord, Dragomirna si trovò nel territorio dei cattolici Asburgo e Paisij, temendo vessazioni da parte del governo giuseppinista austriaco, si sposta nel 1775 coi suoi 350 monaci a Secu. L’urgenza di costruire nuove cellette per i sempre più numerosi fratelli che bussavano alla sua porta spinge Paisij a chiedere sovvenzioni al principe Costantino Moruzi il quale, su suggerimento del metropolita Gabriele, gli ingiunge di trasferirsi a Neamţ, il più grande monastero del paese. E’ l’ultima tappa della vita del grande starets, quella che lascerà i segni più duraturi e di maggior risonanza. Neamţ in quegli anni era diventato il centro del monachesimo ortodosso, scuola della cultura spirituale per tutto l’oriente ortodosso. Paisij muore nel 1794, all’età di 71 anni, amato dalla sua comunità plurinazionale di Secu e Neamţ, composta ormai da un migliaio di fratelli fra romeni, ucraini, russi, serbi, greci e bulgari.
 
Tre domande essenziali.
 
La mia riflessione ruota su tre domande. Prima domanda: perché la personalità e l’opera di Paisij ha esercitato tanto fascino?
 
Non si può che costatare come con Paisij la vita monastica torni ad essere vissuta come un ideale appassionante. Da notare che non è tanto la persona di Paisij a suscitare fascino quanto la sua comunità. Paisij è da vedere e da leggersi in funzione della sua comunità. Conosce per esperienza diretta tutte e tre le vie che caratterizzano il monachesimo secondo la tradizione: quella eremitica (per la quale però non si sente all’altezza, non gli risulta congeniale), quella ‘regale’ (che ha sempre sognato ma che, controvoglia, ha dovuto lasciare), quella cenobitica (di cui è diventato l’emblema stesso, rinnovandola nello spirito più genuino della tradizione). Il genio spirituale di Paisij si rivela nel fatto di far confluire i carismi della via regale nella via cenobitica ed in questo si realizza il mistero della sua santità. Con tutto se stesso ha voluto e cercato di vivere la grazia del monachesimo in tutta la sua potenza.
 
Dice molto bene il suo biografo Mitrofan: “Nei tempi in cui il monachesimo si era tanto illanguidito e mostrava solo il suo aspetto esteriore, [Paisij] fece conoscere cosa fosse il monachesimo, quale fosse il mistero dell'obbedienza, quale grande profitto arrecasse al novizio l'avanzare nell'intelligenza spirituale, quale fosse l'azione e la contemplazione, la preghiera mentale del cuore, quella compiuta dalla mente nel cuore.”. L’ordinamento della vita comunitaria, come si desume dalla sua Regola, si basa sull’obbedienza e su di una stretta povertà; il superiore deve condurre i fratelli a partire dalle Scritture e dai Padri; la pratica di preghiera preferita è la preghiera di Gesù; il superiore deve essere eletto tra i membri della comunità e deve conoscere il greco, lo slavo e il romeno.
 
Ma al di là degli ordinamenti è un certo clima particolare a caratterizzare la vita della comunità paisiana, centrata sul mistero dell’obbedienza: il clima che deriva da un’obbedienza praticata in umiltà e mansuetudine, come sottomissione ai fratelli (Paisij insiste molto di più sull’obbedienza vicendevole che sull’obbedienza al superiore) e da quel ‘lavorio del cuore’ unito alla preghiera incessante che dà un respiro esicasta alla vita del cenobio. “Per imparare l'umiltà, non esiste apprendimento più conveniente di quello che possiamo effettuare nel segreto del nostro cuore: ognuno biasimi se stesso, si ritenga sotto i piedi di tutti, si pensi polvere e cenere ... L'istruzione che agisce nell'intimo, insieme alla lettura, è casa dell'anima dove non ha accesso l'avversario, è pilastro incrollabile, porto tranquillo, senza agitazione e senza scosse, che salva l'anima. I demoni in effetti si agitano grandemente e si arrabbiano molto quando il monaco si premunisce con le armi di questo lavorio interiore di istruzione e con l'incessante invocazione: "Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me, peccatore", insieme ad una lettura conveniente”.
 
Con Paisij - e questa è una vera rivoluzione! - la ‘vita comune’, scuola impareggiabile della vera obbedienza, dalla quale fiorisce l’umiltà, giunge ad essere il vero luogo della pratica esicasta, senza cui si finirebbe per fraintenderla. Ora, la vera forza di Paisij sta nel mettere in mano ai suoi discepoli la chiave per comprendere dall’interno ciò che li esorta a praticare. In questo contesto riceve tutto il suo significato la lettura assidua ed amorosa delle Scritture e dei Padri insieme alle pratiche della confessione quotidiana dei pensieri e la preghiera di Gesù. Lo scrutare, giorno e notte, le Scritture e gli scritti patristici, è la risposta di Paisij alla mancanza di guide sperimentate. Risposta così seria e impegnativa che lo studio dei testi patristici, unito allo sforzo di tradurli in slavo ecclesiastico e in romeno, è diventato poco a poco l’attività principale del nostro starets, il fondamento, il punto di forza della sua opera.
 
Quello che però resta come grandioso nella coscienza dei suoi discepoli non sarà il risultato di questo immenso lavoro di correzione e traduzione dei testi patristici, bensì lo scopo e la vitalità spirituale con cui era vissuto tale compito. E’ risaputa la grande importanza e la diffusione che ha goduto nel mondo slavo il Dobrotoljubie, la versione slavonica della Filocalia edita a Mosca nel 1793, undici anni dopo l’edizione greca di Venezia. Nessuna delle cinque biografie conosciute di Paisij, composte dai suoi discepoli circa una ventina d’anni dopo la sua morte, ne fa menzione. Eppure tutti unanimemente sottolineano la straordinaria fecondità del lavoro di correzione e traduzione dei testi patristici ad opera del nostro starets, lavoro che costituisce il contesto più diretto di quel rinnovamento monastico che ha così colpito i contemporanei.
 
Seconda domanda: l’esperienza paisiana è tanto singolare da essere irripetibile?
 
Indubbiamente, nonostante l’enorme influenza esercitata, l’opera di Paisij è rimasta unica nelle sue caratteristiche precipue. Tutti si sono appellati a lui, ma nessuno ha riprodotto il modello integralmente. I carismi specifici che si attribuiscono a Paisij - a riferircelo è lo starets Gheorghe di Cernica, paisiotul, come lo definiscono le fonti romene, transilvano di origine e discepolo della prima ora di Paisij, che conosceva molto bene per essere stato suo discepolo per 24 anni, accompagnandolo sull'Athos, a Dragomirna, a Secu e a Neamţ - sono: il dono della preghiera del cuore (Paisij aveva fama di maestro della preghiera del cuore, sebbene lasci ad altri il compito di insegnarla ai fratelli); il dono di guidare una moltitudine di fratelli (come starets dei monasteri di Secu e Neamţ aveva la guida di circa un migliaio di monaci); il dono, assai raro, di tenere insieme i fratelli di varie nazionalità (nella comunità di Paisij vivevano insieme monaci romeni, ucraini, russi, bulgari, serbi, greci).
 
Distinguerei tra singolarità e unicità. In sostanza, la singolarità dell’esperienza paisiana mi sembra fondata sul principio di ancorare la pratica ascetica all'intelligenza spirituale, concependo il fare in funzione del contemplare, l'agire, esteriore e interiore, in funzione del vedere spirituale. Sintetizzerei il suo insegnamento in questo modo. Perché la lettura? Insieme alle fatiche ascetiche è necessario abbinare anche la mente, la capacità di giudizio, perché tutta la nostra vita, la nostra condotta proceda secondo la potenza delle S. Scritture. La lettura illumina la mente e accende il desiderio di praticare i comandamenti.
Perché i Padri? Dal momento che noi, uomini passionali, non possiamo comprendere la luce delle Scritture, seguiamo i Padri ai quali, per aver avuto un cuore puro, illuminato dallo Spirito Santo, sono stati aperti i segreti del regno dei cieli, ossia la profondità della S. Scrittura. Nella loro interpretazione delle Scritture ci svelano gli inganni del diavolo e ci fortificano nello zelo per osservare i comandamenti. Come leggere? Non c'è alcun vantaggio se uno legge solamente nero su bianco e non si dà cura di conoscere anche la potenza di quel che legge.
 
Altro elemento di singolarità è sicuramente la capacità di Paisij di coniugare persona e istituzione. L'obbedienza in sottomissione reciproca crea comunione nel rispetto di ciascuno: è il primato della persona sull'organizzazione. Ecco perché é così importante che la comunità non si regga su giudizi o mire umane sia da parte del superiore che dei fratelli; sarebbero in qualche modo sacrificate le persone. Una comunità evangelica è sempre e sopra tutto una comunità di persone, che cresce se ciascuno cresce. E' straordinario che Paisij, alla guida di una comunità tanto numerosa e multietnica, non abbia mai perso di vista questo punto! «Preferiva che andasse in rovina il monastero o qualche altra cosa di valore piuttosto che l'anima di un fratello si perdesse e cadesse in peccato» riporta Isaac nella sua biografia.
 
Voleva che i lavori fossero compiuti senza agitazione e pressione, secondo l'energia propria di ciascuno. Conosceva bene la sua imperizia nei lavori (basta leggere la sua autobiografia!). L'unica cosa che gli premeva e che sapeva trasfondere nei fratelli era l'anelito a progredire spiritualmente, era l'obbedienza di tutti, in sottomissione reciproca, a Cristo. Paisij ha saputo, e non è certo l'ultimo titolo di merito che ha, tenere insieme una comunità capace di promuovere una comunione ed un amore sincero tra gli uomini, modellando senza posa l'umano e levando quell'opacità che gli impedisce di riflettere il divino.
 
L’unicità, invece, va addebitata al contesto specifico in cui Paisij è venuto modellando la sua esperienza, vale a dire al fatto del grande numero di fratelli che vivevano radunati in un’unica comunità e al fatto che tali fratelli fossero di provenienza e di popoli diversi. Queste due condizioni non hanno retto alla prova del tempo. Per le mutate circostanze storiche sopraggiunte sul finire della vita di Paisij con la Moldavia occupata dall’esercito russo, con le tensioni ecclesiastiche che si erano scatenate, con l’insorgere di un nuovo spirito nazionale, se non nazionalistico? O per la diminuita tensione interiore della comunità paisiana stessa?
 
Eppure, venendo meno queste due caratteristiche, viene meno sicuramente quel fascino che aveva attirato tanti e suscitato tanta ammirazione. Lo stesso starets aveva profetizzato che quando fosse venuta meno la sete della parola di Dio, cioè lo studio attento e amoroso delle Scritture e dei Padri, sarebbero subentrate negligenza e divisioni tra i fratelli, affievolimento dello zelo per il Signore e di conseguenza ricerca della volontà propria e delle comodità.
 
Diventa urgente quindi la domanda, la terza: qual è allora la sua eredità?
 
Gli studi storici avranno certamente molto da precisare nel ripercorrere le vie attraverso le quali si è irradiata l’opera paisiana in Romania come in Russia, nel monachesimo come nella chiesa. Ma io vorrei suggerire qui un’altra ottica per considerare l’eredità paisiana, l’ottica della sua santità.
Vedo Paisij come un uomo liberato dai confini angusti e irrigiditi in cui chiudiamo noi stessi ed i nostri fratelli, le persone come le comunità, i singoli come le chiese. “Beati i miti, perché erediteranno la terra” (Mt 5,5), compreso nell’ottica dell’altro versetto “Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi ... imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime” (Mt 11,28-29), rivela la grazia e lo splendore di quella liberazione.
 
Mitezza ed umiltà sono il paradigma di tutte le disposizioni buone nell'uomo, quando l'io diventa capace di una misura piena ‘scossa e traboccante’(cfr. Lc 6,38), come costituisse l’esito finale e maturo di una ascesi volta a purificare la volontà, capace di sprigionare fascino per i cuori. Forse, più che cercare di ‘volere bene’ a qualcuno, dove bene è il complemento oggetto del volere, si dovrebbe imparare a ‘volere bene’ qualcuno, dove bene è un avverbio che esprime il modo adeguato di volere che qualcuno o qualcosa siano. L’ascesi per la santità è un’ascesi che tende a generare un nuovo modo di volere in cui l’accento non sia posto tanto sull’affermazione di sé quanto sulla disponibilità a servire ciò che è voluto, ad accompagnarlo al suo destino, servitori e testimoni di un mistero che ci supera e ci racchiude. Un uomo libero è un uomo che in mitezza ed umiltà ‘vuole bene’ chiunque: non ha più ostruiti i sentieri interiori verso chiunque o qualunque cosa.
 
Il mondo può risplendere ancora della primitiva luce di Dio. Accogliere l’altro semplicemente non è sufficiente. La fede e l’ideale di santità che ne deriva dovrà essere tanto radicata e capace di modellare l’umano che l’altro è sentito parte viva di quel mistero di comunione, in mitezza ed umiltà, che siamo chiamati a vivere. Paisij ha vissuto tutto questo nella e per la sua comunità, così composita e numerosa e credo sia questo il messaggio più significativo che lascia alle persone come alle chiese. In questo, nel prendere sul serio l’ideale della santità nel contesto delle vicende storiche della nostra umanità, così provata e ferita, non può risiedere il compito per coloro che vogliono essere oggi in qualche modo discepoli di questo grande starets?
 
 
2. Agli avversari e denigratori della «preghiera di Gesù» - Commento e apologia a cura dello starets Paisij
 
(tratto da Igor Smolitsch, Santità e preghiera, ed. Gribaudi).
 
Io, cenere e polvere, prostrato con tutta la mia anima e tutto il mio cuore dinanzi all'inaccessibile splendore della gloria divina, ti prego o dolcissimo Gesù, Figlio unico e Verbo di Dio, splendore del Padre sovrano e figura della sua ipostasi, tu che hai restituito la vista al cieco, dissipa le tenebre del mio spirito, illumina i miei confusi pensieri, accorda la grazia alla mia anima traviata. Possa questo scritto glorificare il tuo nome santissimo e rendere servizio a coloro che vogliono unirsi a te, nostro Dio, nel loro santo esercizio della preghiera spirituale e portarti sempre nel cuore, tu che sei la perla inestimabile. Possano essi anche ricondurre sul retto cammino quella gente senza fede che osa maledire questo santo esercizio.
 
Quali motivi avete dunque per calunniare questa preghiera? Oserete giudicare vano l'invocare il Nome di Gesù? Oppure il cuore merita questi oltraggi, questo cuore sul quale come su una tavola d'altare il nostro spirito celebra la gloria di Dio e offre il mistero del suo sacrificio di lode? Lo spirito e il cuore non sono forse creature di Dio e cose buone in se stesse, come tutto quanto il corpo umano? Che cosa si può dunque rimproverare all'uomo che, dal profondo del suo cuore e con tutto il suo spirito, eleva la sua preghiera verso il dolcissimo Signore per implorare la sua grazia? Oppure disprezzate e rigettate la preghiera spirituale perché pensate che Dio non ascolti una preghiera mormorata nel segreto del cuore e gradisca solo quella che pronunciano le labbra? Se è così, offendete Dio.
 
Ma ho altre domande da farvi! Disprezzate questa preghiera perché ne avete potuto costatare la funesta influenza? Avete mai visto o sentito che chi la pratica abbia subito qualche danno nella mente o nell'anima, oppure abbia scambiato l'illusione con la verità? E ne avete dedotto che causa di tutti questi mali era la preghiera spirituale? Non è affatto così. La santa preghiera spirituale, quella che la grazia di Dio rende efficace, allontana l'uomo dalle passioni, lo mantiene nella fervente fedeltà ai comandamenti di Dio e lo preserva contro tutte le frecce e gli attacchi del tentatore.
 
Convengo volentieri che se qualcuno, per semplice capriccio rifiuta di pregare ad alta voce, cosa questa raccomandata dai santi Padri, e non vuole sentire il consiglio di maestri esperti, costui si getta nella rete e nelle trappole del demonio. Ciò equivale forse a dire che, in questo caso, la preghiera deve essere messa in causa? Lungi da ciò! La testardaggine, l'orgoglio e la mancanza di umiltà sono piuttosto le cose che spiegano le seduzioni diaboliche, le illusioni spirituali di cui alcuni sono preda.
 
La divina preghiera spirituale ha le sue radici nella parola stessa di nostro Signore Gesù Cristo: «Ma tu, quando preghi, entra nella tua camera, chiudi dietro a te la porta e prega il Padre tuo che è là, nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, te lo renderà» (Mt 6,6). San Giovanni Crisostomo, questa bocca di Cristo, quest'astro dell'universo, questo maestro ecumenico, non ha voluto applicare tale testo alla preghiera delle labbra e della lingua, ma a una preghiera che sale dal profondo del cuore.
San Basilio il Grande, questa colonna di fuoco, questo ardente portavoce dello Spirito santo, afferma che l'uomo possiede nelle sue profondità una bocca spirituale che gli permette di nutrirsi della Parola divina. San Gregorio il Teologo dice della preghiera spirituale: «Il tuo spirito resti incessantemente un tempio di Dio perché tu conservi nel profondo del tuo cuore l'immortale presenza del re divino»
 
Bisogna sapere che secondo gli scritti dei santi Padri ci sono due tipi di preghiere spirituali: uno per i principianti, che può essere paragonato all'azione (praxis), e l'altro per i perfetti, che corrisponde alla contemplazione (theoria). La prima è l'inizio, la seconda il punto d'arrivo, poiché «agire» significa innalzarsi per «contemplare». Proprio in questo sta infatti ogni sforzo ascetico quando si lotta con l'aiuto di Dio: si combatte per l'amore di Dio e del prossimo, per la dolcezza, la pazienza e l'umiltà e per adempiere tutte le altre leggi di Dio e dei Padri; si combatte per la perfetta obbedienza dell'anima e del corpo, per i digiuni, le veglie la contrizione le genuflessioni e tutte le altre mortificazioni della carne, per l’esatta osservanza delle prescrizioni riguardanti l'ufficio divino e la preghiera in cella, per l'esercizio spirituale della preghiera privata, per le lacrime e la meditazione sulla morte. Tutto questo è lotta fintanto che la nostra ragione umana è preda dei nostri capricci e della nostra testardaggine. Tutto questo, lo si sa bene, può essere chiamato «agire», «azione», praxis. Ma «vedere» e «contemplare», tutto ciò ancora non lo è.
 
Quando però, con l'aiuto di Dio, attraverso questo combattimento e soprattutto in grande umiltà, l'uomo è arrivato a lavare la sua anima e il suo cuore da ogni impurità spirituale e dai godimenti della carne, allora interviene la grazia divina, nostra comune madre: essa illumina la nostra ragione, la prende per mano come la madre fa con il suo bambino, la fa salire gradino per gradino e le rivela, a seconda del grado della sua purezza, i misteri indicibili e insondabili di Dio. Questa è la vera visione, la contemplazione (theoria).
 
Preghiera contemplativa - la «preghiera pura» di Isacco il Siro - sguardo rispettoso su Dio stesso: ecco cos'è. Che nessuno abbia ad avventurarsi in questa contemplazione con le sue proprie forze o di testa propria, senza che Dio lo visiti e lo guidi con la sua grazia. «Se, ciò nonostante, qualcuno avesse la pretesa di innalzarvisi senza la luce della grazia divina, sappia che, dice san Gregorio il Sinaita, le sue visioni sono solo chimere proiettate in lui dall'inganno del maligno».
 
Bisogna anche sapere che Gregorio il Sinaita ha distinto otto tipi di contemplazione. «Possiamo contare, dice, otto principali oggetti di contemplazione. Primo: Dio, la Causa invisibile, eterna e increata di ogni cosa, l'unità della Trinità in tre persone e la Divinità soprannaturale. Secondo: l'ordine e la gerarchia delle potenze spirituali. Terzo: il piano divino della creazione. Quarto: L'incarnazione del Verbo di Dio. Quinto: la resurrezione dell'universo. Sesto: la seconda e terribile venuta di Cristo. Settimo: le pene eterne. Ottavo: il regno dei cieli e la sua infinità eterna».
 
Si sappia bene anche che la santa azione della preghiera spirituale ha rappresentato la costante occupazione dei nostri Padri ripieni di Dio e che essa ha rischiarato come il sole la vita dei monaci: sul Sinai, nel deserto di Scete, sul monte Nitria, a Gerusalemme e nei nostri monasteri: in una parola, in tutto l'Oriente; a Costantinopoli, sulla santa Montagna dell'Athos, sulle isole, e, in tempi più recenti, per grazia di Cristo, anche in tutta la Russia.
 
I nostri Padri ebbri di Dio, tutti ardenti del fuoco serafico dell'amore di Dio e del prossimo, hanno avuto il privilegio di diventare, grazie a questo spirituale raccoglimento, fedelissimi custodi dei comandamenti di Dio e vasi dello Spirito santo. Essi infatti avevano purificato il loro cuore e la loro anima e cancellato in se stessi le tare dell'uomo vecchio. In una santa esaltazione e poiché lo Spirito comunicava loro la sapienza, a proposito della preghiera spirituale hanno scritto pagine tutte ispirate dall'Antico e Nuovo Testamento.
 
Era disegno della Provvidenza che la loro santa occupazione non cadesse dopo di loro nella dimenticanza. Tra le file dei veri credenti nessuno ha mai denigrato questa pratica spirituale, questa sorveglianza del paradiso del cuore; la si è sempre stimata, rispettata come portante in sé il più alto profitto spirituale. Ma Satana, artefice di ogni malizia, nemico di ogni buona azione, si è accorto che questa occupazione spirituale permetteva ai monaci di restare ai piedi di Cristo nell'amore e di progredire nella perfezione con una sempre più totale fedeltà ai comandamenti divini. Ha usato allora tutti i suoi artifici per discreditare agli occhi degli uomini questa attività così salutare per l'anima ed estirparla per sempre dalla terra. Così il Maligno ha reclutato in terra d'Italia l'eresiarca Barlaam, la vipera calabrese, e, rintanandosi in lui con tutta la sua potenza malefica, gli ha ispirato di venire a diffamare la nostra fede ortodossa.
 
Il Signore Gesù Cristo stesso, dalle origini della fede ortodossa e fino ai nostri giorni, è stato pietra d'inciampo per gli increduli e salvezza dell'anima per i credenti; lo stesso succede per la preghiera di Gesù: sebbene sia stata una pietra d'inciampo e un'occasione di scandalo per qualche fedele e qualche scettico nessuno tuttavia, prima di questo eresiarca, aveva osato denigrare tale ascesi e sparlare di quelli che la praticano.
 
Barlaam, questo rettile sfuggito dall'inferno, si è dunque recato dalla Calabria in Grecia e ha posto la sua prima residenza a Tessalonica, non lontano dal monte Athos Proprio qui, tra i monaci aghioriti, sentì parlare della santa preghiera spirituale. Allora, forte del suo sapere filosofico e delle sue conoscenze astrologiche, cominciò a distillare il suo veleno contro i monaci contro la preghiera, contro la stessa Chiesa di Dio e la sua dottrina. La luce divina di Cristo, lo splendore increato ed eterno che sul monte Tabor è rifulso sui suoi santi discepoli ed apostoli, costui ha preteso fosse stata creata.
 
Insieme al suo discepolo Akindin ha fatto lo stesso discorso a proposito degli altri attributi divini propri, per essenza e natura, alla sola e stessa essenza della santa Trinità così come i raggi, lo splendore e la luce sono propri al sole; tali attributi sono: l'efficienza, la potenza, la grazia, la luce e lo splendore, i doni, le perfezioni e tutto ciò che in Dio non si può misurare né numerare. Tutti i cristiani ortodossi i quali confessano che in Dio non ci può essere nulla di creato e che in lui tutto è increato ed eternamente esistente, li hanno riguardati come gli adoratori di due o più dèi, ma in realtà essi erano dei senza Dio.
 
Per questo i Padri aghioriti della santa Montagna dell'Athos si sono riuniti in concilio locale. Hanno dichiarato anatema le calunnie di Barlaam, dopo che questi aveva respinto tutte le esortazioni orali e scritte che gli vennero fatte. Più tardi, i quattro grandi concili tenuti a Costantinopoli nella chiesa della divina Sapienza (Haghia Sofia), estesero l'anatema a tutti gli eretici e ai loro seguaci. Ai primi due di questi concili aveva assistito Gregorio Palamas, all'epoca ancora semplice monaco; fu anche presente al terzo concilio nella sua qualità di vescovo di Tessalonica. Quanto al quarto concilio, ebbe luogo solo dopo la sua morte. In tutte queste assemblee, la Chiesa pronunciò l'anatema contro tutti gli eretici che rifiutavano di fare penitenza e di abiurare i loro errori, mentre i monaci dell'Athos furono lodati da tutta la Chiesa per la purezza della loro fede, riconosciuta esente da ogni errore, diffamazione o menzogna. Così la preghiera di Gesù, pronunciata non soltanto dalle labbra, ma dal fondo del cuore illuminato dalla ragione, venne sottratta ai colpi degli eretici e glorificata da tutta la nostra santa Chiesa come un'opera divina.
 
E ora, ve ne prego e prego anche Dio: frequentate con un santo ardore, con una fede a tutta prova gli scritti dei Padri e l'insegnamento che vi consegnano. Questo insegnamento è in accordo con la Sacra Scrittura, con le dichiarazioni dei Dottori ecumenici della Chiesa e con la santa Chiesa stessa, poiché in tutte queste fonti di verità, chi agisce è sempre lo Spirito. E lo Spirito che istruisce i Padri quali nostri maestri nella vita monastica. E poiché la loro fedeltà è stata gradita a Dio, i misteri del regno di Dio sono stati loro rivelati; Dio ha svelato loro il senso profondo della Sacra Scrittura e per questo gli scritti dei Padri contengono il vero insegnamento per i monaci che vogliono assicurare la loro salvezza. Rimanete saldamente attaccati a questo insegnamento, ma tenetevi lontani da ogni controversia e fuggite ogni discussione quando i detrattori della preghiera spirituale vogliono guadagnarvi alla loro causa. Né loro, né altri infatti possono presentare una sola testimonianza in favore della loro falsa sapienza; non possono fondarla che sulla sabbia di una ragione empia e traviata.
 
Quanto a voi che sostenete la verità, quali fedeli e sinceri figli della Chiesa ortodossa di Dio, costruite sulla salda roccia della fede! Non mancate infatti di testimoni per l'autentica osservanza dei comandamenti di Dio e per la pratica della santa preghiera di Gesù: ci sono tutti i nostri santi ebbri di Dio che posso citarvi qui... Seguite bene i loro santi insegnamenti; sforzatevi con il corpo e con l'anima di praticare tutte le opere buone e gradite a Dio. Fate ciò che potete con l'aiuto della grazia di Dio.
 
Amen

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