del prof. Enrico Morini, da Gli Ortodossi, ed. Il Mulino.
Un lungo velo nero, che avvolge il copricapo a cilindro degli ecclesiastici ortodossi, dà un aspetto inconfondibile all’alto clero di questa Chiesa, quello celibe e più colto: patriarchi e metropoliti, vescovi e archimandriti. Questo velo, che cade sul petto con due sottili bande di stoffa e ricade dietro a punta abbracciando le spalle sino a mezza schiena – portato anche, in determinati momenti del rito, sopra i colorati paramenti –, conferisce a questi uomini di Chiesa quella caratteristica sagoma trapezoidale che rappresenta indubbiamente una delle immagini più evocative dell’Ortodossia. Non è forse altrettanto risaputo che questo indumento, che fa di questi ecclesiastici gli unici uomini per così dire “velati”, non connota affatto lo stato clericale, bensì la condizione monastica.
Anticamente – e ancora oggi, soprattutto al monte Athos, in qualche comunità che ama ritornare all’antico – questo velo veniva steso direttamente sul capo, senza il berretto sottostante, durante la preghiera e le celebrazioni liturgiche. Il vescovo lo porta perché, almeno dall’alto medioevo, egli viene scelto tra i monaci. Ancor oggi, se il vescovo prescelto appartiene al clero secolare, prima dell’ordinazione deve rivestire l’abito monastico. Il medesimo monocromo nero – che rappresenta pertanto una parte considerevole del “paesaggio” umano tipico dell’Ortodossia – connota il monachesimo femminile: anche le monache, figure nere che lasciano solo vedere il triangolo del volto delimitato da un fazzoletto che copre la fronte e le guance, portano direttamente sul capo il lungo velo che discende sino a metà schiena (in Russia invece le monache più anziane portano il velo sull’alto berretto cilindrico proprio del clero).
Difficilmente chi ha esperienza del monachesimo occidentale riesce ad avere una corretta comprensione di quello ortodosso, nonostante la matrice comune delle due esperienze religiose, provenienti entrambe dall’antico monachesimo cristiano, documentato, già nel IV e V secolo, nei deserti egiziano e siro-palestinese. Risulta soprattutto fuorviante una certa osmosi che si è verificata nell’occidente latino tra chierici e monaci, per cui ai primi sono stati imposti requisiti e compiti della condizione monacale, come il celibato e la recita quotidiana dell’ufficio divino, e ai secondi vengono talvolta affidati incarichi pastorali, propri del clero secolare. Sono soprattutto due i presupposti teorici del monachesimo ortodosso che lo fanno apparire così diverso da quello cattolico: il principio della coessenzialità del monachesimo alla vita della Chiesa quello dell’assoluta unitarietà della vita monastica, per cui non esiste pluralità di regole e l’estrema varietà delle forme di vita non altera la dimensione rigorosamente unitaria della professione monastica.
In virtù del primo principio l’autocomprensione che il monachesimo ortodosso ha di se stesso e delle proprie origini presuppone una continuità anche formale non solo con l’età apostolica, ma anche con i modelli veterotestamentari di ascesi confluiti nella tradizione profetica di Elia e ripresi emblematicamente nella figura neotestamentaria del Battista. Il controverso problema delle origini del monachesimo cristiano viene risolto, nel sentire ecclesiale dell’Ortodossia, con argomentazioni non già storico-critiche, ma principalmente teologiche, in base al criterio dell’analogia del genere di vita. L’incontrovertibile e rapidissimo fiorire del monachesimo a partire dal IV secolo, per cui i deserti egiziano e siro-palestinese si popolarono di monaci come una città e la terra arida si riempì, in termini figurati, di fiori – sono espressioni e immagini tratte dagli antichi testi monastici – viene a sua volta spiegato con un’esigenza di vita cristiana integrale in un contesto ecclesiale di crescente mondanizzazione.
Ne consegue che il monachesimo viene considerato la componente scelta della Chiesa, la porzione eletta, il resto del nuovo Israele, che ha cercato la salvezza nel deserto separandosi dalla massa sempre più compromessa col mondo. Nella loro funzione di membri eccellenti della compagine ecclesiale, ai monaci vengono riconosciuti dai fedeli compiti specifici – avvertiti pertanto non come abusivi, quando vengono esercitati, ma quasi come istituzionali –, quali la guida spirituale dei fedeli e soprattutto la difesa intransigente dell’ortodossia dottrinale, in un’implicita contrapposizione con il ruolo dei vescovi (abbiamo visto le sagome nere dei monaci e delle monache sfilare nel 2001 per le vie di Atene e di Kiev per protesta contro la visita del papa). Non si concepisce pertanto l’esistenza della Chiesa senza il monachesimo, come testimonia anche la qualifica monacale attribuita a vergini martirizzate prima della pace costantiniana (come s. Parasceve e s. Anastasia la Romana). Significativamente questo ruolo del monachesimo, sentito come coessenziale e coeterno alla Chiesa, ha contribuito in profondità alla formazione dell’identità ortodossa, nelle sue espressioni cultuali e spirituali. Basterà ricordare come la liturgia monastica si sia venuta generalizzando, sostituendosi progressivamente alla liturgia cattedrale, a partire dal critico periodo della francocrazia (1204-1261).
Poiché il monaco è colui che riconduce tutto all’Uno, superando ogni divisione, ogni dicotomia, che il peccato ha introdotto nel cosmo e in quel microcosmo che è l’uomo, tutto ciò che lo riguarda presuppone l’unità. Per quanto molteplici e differenziate siano le forme esteriori della vita monastica, lo stato di vita che in esse si esprime è sempre uno perché l’essenza del monaco è comune a tutte: la rinuncia al mondo, in quanto alternativo all’amore assoluto per Dio, e la scelta di una perenne condizione di penitente per sé e per il mondo (donde l’abito nero), nella consapevolezza che il valore primario della salvezza eterna esige da lui un’opzione così radicale.
Il termine monaco etimologicamente viene dal greco monos che vuol dire “solo”; ora, anche se è un cenobita, se vive cioè nell’ambito di una comunità, egli è nondimeno pienamente monaco, in quanto è primariamente il consorzio a cui egli appartiene a essere isolato rispetto all’altro più ampio consorzio, quello della società civile. Se poi è un eremita, se cioè vive in un piccolissimo gruppo sotto la guida di un anziano in una kaliva (capanna), spesso nell’ambito di un villaggio monastico (la skiti), oppure se dimora solitario in un esicasterio costruito in un luogo accessibile solo per ripidissimi sentieri ferrati a picco sul mare, non è mai integralmente solo, perché membro di questa società dove non si genera fisicamente ma spiritualmente e che tuttavia continua a riprodursi. Ciò che conta e che qualifica il monco ecclesiasticamente e sociologicamente è prima di tutto l’essere monaco e quest’unità si esprime esteriormente in una foggia d’abito comune a tutti i monaci ortodossi. Come l’Ortodossia non conosce più regole che differenzino profondamente una famiglia religiosa da un’altra, così non esistono diversi ordini monastici: apparentemente il pluralismo è totale, in quanto ogni monastero ha la sua regola particolare, ma tutte seguono un archetipo comune, attribuito collettivamente alla sapienza ispirata dei Padri.
L’abito monastico viene convenzionalmente definito “abito angelico”, non solo perché, secondo una “leggenda delle origini” monastiche, esso non è frutto della fantasia dell’uomo ma viene dall’alto – in quanto indossato dall’angelo che in visione lo mostrò all’egiziano Pacomio, il legislatore della vita in comune –, ma soprattutto perché chi lo indossa, nel suo distacco dal mondo e nella sua rinuncia alla sessualità, anticipa in terra la condizione del secolo futuro, dove i redenti “non si sposano, ma sono come gli angeli nel cielo” (Mt 22, 30). Il monaco non solo preannuncia la condizione finale dell’uomo, ma riproduce anche quella iniziale dell’Eden, quando le bestie feroci erano docilmente sottomesse ad Adamo. Egli partecipa infatti alla nuova creazione, inaugurata dal Cristo, nuovo Adamo, che nel deserto stava con le fiere (Mc 1, 13). La familiarità di s. Gerasimo con il leone (come quella di s. Sergij di Radonež e di s. Serafim di Sarov con l’orso) non è un episodio di edificante zoofilia, ma un consapevole manifesto, in forma narrativa, di teologia monastica.
Per poter vivere in anticipo la gloria futura dell’umanità e recuperare l’innocenza originaria, l’uomo ha bisogno di un supplemento di grazia, quasi di un nuovo sacramento, che nel profondo del proprio essere lo trasformi, non diversamente da come opera il battesimo. Per questo l’iniziazione monastica è qualificata come un nuovo battesimo, non certo nel senso della ripetizione di un sacramento non reiterabile, ma in quanto consente, nella vita di penitenza, il recupero della santità battesimale. Questo è il senso dell’imposizione al monaco di un nuovo nome, che di solito conserva però l’iniziale del primo, per esprimere efficacemente la continuità dell’iniziazione monastica con quella battesimale. L’assimilazione al battesimo del rito d’iniziazione monastica comporta anche l’irreversibilità della scelta dello stato di vita monacale: in altri termini, come non si può più perdere il carattere impresso dal battesimo, così non si dà, nella Chiesa ortodossa, dispensa dai voti monacali. Analogamente mutuata dalla teologia battesimale è la convinzione che la vestizione monastica rimetta i peccati: è forse questa motivazione più forte, anche se inespressa, che ha reso quasi una prassi nella regalità ortodossa – da alcuni imperatori costantinopolitani, ai re serbi e ai principi e zar russi – l’assunzione dello stato monacale sul letto di morte. L’occidente conosce forse questa consuetudine grazie alla mediazione culturale del melodramma, nel Boris Gudunov di Puškin, musicato da Musorgskij, e precisamente nella suggestiva scena finale della monacazione dello zar morente, roso dai rimorsi.
Da questo compendio di teologia ortodossa del monachesimo si può vedere come lo stato monacale sia primariamente la lotta contro la propria natura corrotta dal peccato, impresa resa possibile dalla rigenerazione battesimale, avvalorata dalla professione monastica. Ciò significa che senza la coscienza del peccato non ci sarebbe monachesimo nel cristianesimo orientale. Se il monachesimo, anche nella sua gerarchia interna, è un microcosmo modellato sul macrocosmo della Chiesa, così il singolo monaco è il prototipo del fedele che, nel suo cammino verso la divinizzazione, compendia in sé la vicenda dell’umanità intera: il tracollo del peccato e insieme il recupero dell’innocenza originaria e l’anticipo della condizione gloriosa.
Come c’è una teologia così c’è pure una geografia sacra del monachesimo ortodosso. Sono ben significativi i termini metaforici con cui nel mondo ortodosso vengono chiamati i monasteri più importanti. L’area monastica del monte Athos viene definita “arca santa dell’Ortodossia”, così come i più importanti monasteri del mondo ortodosso vengono presentati – complice anche la loro architettura – come “frouria (cioè cittadelle, fortezze) dell’Ortodossia”. Procedendo in un’ideale escursione storico-spirituale lungo le vie del monachesimo ortodosso il punto di partenza è il monte Sinai. Qui sul luogo dove il roveto che ardeva senza consumarsi – dove Mosè ha ricevuto la rivelazione del nome divino –, ai piedi del monte della teofania dell’Esodo, entro le alte mura erette da Giustiniano per proteggere e imporre una regola di vita comune a eremiti che prima popolavano sparsi la montagna sacra, l’Ortodossia ha ricevuto l’iniziazione alla più alta forma di preghiera, consistente nell’invocazione incessante del nome di Gesù. Nella Laura di S. Saba, un dedalo di costruzioni aggrappate alla parete di uno stretto wādī del deserto palestinese – attorno alla quale le grotte scavate per alloggiare gli eremiti ammontavano un tempo, si dice, a 14.000 –, l’Ortodossia ha ricevuto, oltre che un sapiente modello di vita eremitica organizzata nella forma appunto della laura, anche e soprattutto lo schema generale, destinato a soppiantare tutti gli altri, delle proprie celebrazioni liturgiche.
Nell’isola sacra di Patmos, dove l’apostolo Giovanni aveva scritto l’Apocalisse, il monaco Cristodulo costruì nell’XI secolo un monastero dedicato al santo, che si erge proprio come una fortezza, una corona merlata e turrita che, con la sua sagoma oscura, sovrasta, in un suggestivo contrasto di colori, il bianco accecante delle case e delle chiese sottostanti. La bandiera gialla con l’aquila bicipite nera, vessillo del patriarcato ecumenico, che sventola a Patmos, la si trova anche nell’ingresso di tutti e venti i monasteri del monte Athos, un luogo unico al mondo, un’intera penisola – un lembo della calcidica – abitata solamente da monaci. Questo singolare fenomeno di monopopolamento si compone felicemente con la compresenza di tutte le forme di vita monastica tradizionali nell’Ortodossia e con l’apporto di tutte le sue componenti etnico-linguistiche: russi, serbi e bulgari vi possiedono un monastero per ciascuno e i romeni una skiti. Per questo il monte Athos è ancor oggi il luogo visibile dell’unità pan ortodossa nel segno del monachesimo e, da secoli ormai, il punto di partenza di ogni impulso di rinnovamento per tutta l’Ortodossia. Di fondazione athonita è, sempre in Grecia, l’area monastica dei Meteora, in Tessaglia, fiorentissima nei secoli XIV-XVI, dove oggi sono presenti anche forme di monachesimo femminile. L’intenso movimento turistico che si registra in questa località – un ostacolo insormontabile al rifiorire della vita monastica – è però giustificato non solo dallo straordinario valore artistico dei suoi monasteri, ma anche dall’incomparabile bellezza del paesaggio, un insieme di parallelepipedi rocciosi – un vero “bosco di pietra”, come è stato definito – lungo le cui pareti si distinguono a fatica le grotte eremitiche e sui quali, come nidi di aquile, si elevano gli irraggiungibili cenobi.
Passando al mondo slavo il nostro ideale pellegrinaggio tocca i monasteri serbi del Kosovo, quello bulgaro di S. Giovanni, tra i monti boscosi della Rila, per approdare poi nella Piccola Russia (Ucraina) e varcare le porte della Laura delle Grotte di Kiev. Questo singolare monastero, fondato appena mezzo secolo dopo la cristianizzazione del paese nell’XI secolo, conserva ancora i due nuclei iniziali rupestri, un intrico di celle sotterranee che si visita a lume di candela, dove ogni ambiente custodisce in una bara di legno il corpo incorrotto del santo monaco che l’aveva abitato. Anche nella Grande Russia si formarono presto dei centri d’irraggiamento monastico, primo fra tutti la Laura della Trinità, fondata non lontano da Mosca da s. Sergij di Radonež nel XIV secolo, baluardo dell’autocoscienza nazionale russo-ortodossa. Proprio la Russia più interna, con le sue foreste disabitate che costituiscono il “deserto” del nord, si popolò di una miriade di monasteri, sino all’arcipelago, punteggiato di eremi e di cenobi, delle isole Solovki nel Mar Bianco, il punto più a nord raggiunto dal monachesimo cristiano, ad appena 164 km dal circolo polare.
Come l’abito monastico così anche la tipologia costruttiva di questi monasteri è carica di valenze simboliche. Il monastero è sempre cinto da alte mura con pochi varchi di passaggio, non solo per esigenze difensive ma soprattutto per mettere in evidenza la separazione dello spazio sacro monastico da quello profano del mondo. La chiesa principale è al centro di questo spazio sacro come cuore dell’organismo monastico, in quanto è per il monastero ciò che l’anima è nel composto umano: essa è separata da ogni altro edificio non solo per consentire il periplo completo alle processioni, ma soprattutto perché la casa di Dio non può appoggiarsi a case di uomini. Il refettorio è anch’esso uno spazio sacro, perché il pasto dei monaci non è che il proseguimento dell’agape eucaristica. Tutta la vita del monaco è liturgia e primariamente nella liturgia monastica si ha la percezione istintiva ma reale di che cosa sia realmente l’Ortodossia. Per capirlo davvero bisogna partecipare alla veglia athonita – una celebrazione notturna che raccoglie in successione tutte le ufficiature della festa, dal vespro alla divina liturgia –, con l’alternarsi continuo di momenti di compunzione austera e di splendore avvolgente. Oppure bisogna sentire il sobrio salmodiare delle monache russe che si alternano a leggere per tutta la giornata il salterio, perché non manchi mai chi canta in chiesa le lodi di Dio. Si riesce allora a comprendere come nell’Ortodossia l’apparente carenza di dinamismo pastorale sia efficacemente compensata dall’azione liturgica, luogo privilegiato per la pastorale, strumento di evangelizzazione e fonte della devozione personale.
Nessun commento:
Posta un commento