Il 29 giugno (12 luglio del calendario civile), la Chiesa
celebra la festa dei santi Protocorifei degli Apostoli Pietro e Paolo. Il
Sinassario bizantino (una sorta di martirologio, cioè una raccolta di notizie
brevi relative alle commemorazioni liturgiche giornaliere) segna: «Il 29 del
medesimo mese [giugno], memoria dei santi, gloriosi e famosissimi apostoli e
protocorifei Pietro e Paolo», e l’ufficiatura ripete nel titolo: «Memoria
dei santi, gloriosi e famosissimi apostoli e protocorifei Pietro e Paolo».
Al grande Vespro dopo l’esordio e il canto dei Salmi si procede
al canto di sei Idiómela Stichirá, tropari (cioè particolari tipi di inni
liturgici). Il testo del terzo di essi, dovuto all’innografo Andreas Pyros,
dice: «Con quali canti spirituali noi loderemo Pietro e Paolo? Essi, le
bocche della tremenda spada dello Spirito che uccidono l’ateismo e non restano
spuntate. Essi, gli splendenti ornamenti di Roma, le delizie dell’intera terra,
le spirituali tavole divinamente scritte della nuova alleanza, che promulgò in
Sion Cristo, che possiede la grande misericordia».
Verso la fine del Vespro, dopo il «Gloria al Padre»,
viene un tropario di Efrem di Karia: «Festa gioiosa risplendette fino ai
confini oggi, la tuttasanta memoria dei sapientissimi apostoli e corifei Pietro
e Paolo. Perciò anche Roma gioisce assieme ai cori. Con canti e inni festeggiamo
anche noi celebrando questo venerabilissimo giorno. Gioisci, Pietro apostolo e
autentico amico del tuo Maestro, Cristo il Dio nostro! Gioisci, Paolo da tutti
amatissimo, e araldo della fede e maestro del mondo. Poiché avete divina
fiducia, coppia santa eletta, intercedete presso Cristo, il Dio nostro, affinché
siano salvate le anime nostre».
Il tropario proprio della festa canta: «O primi nel trono
degli apostoli e maestri del mondo, intervenite presso il Sovrano di tutti,
affinché sia donata pace al mondo e la grande misericordia alle anime
nostre».
Al Mattutino si cantano due canoni (ufficiatura del mattino),
per Pietro e per Paolo, dovuti a Giovanni Monaco (Damasceno). In quello di Paolo
la strofa (Hypakoê) che termina la I ode canta: «Quale prigione non ti
ebbe incatenato? Quale Chiesa non ha te come oratore? Damasco grandi fatti pensa
di te, Paolo, poiché ti vide abbattuto dalla Luce. Roma, accogliendo il tuo
sangue, anche essa si vanta. Però Tarso gioisce di più, e con desiderio onora le
tue fasce. Pietro, la pietra della fede, Paolo, il vanto del mondo, convenendo a
Roma, rendeteci forti».
Agli Áinoi (Lodi) il terzo tropario riassume la vicenda
di Pietro: «Tu degnamente fosti chiamato Pietra, sulla quale il Signore ha
resa ferma la fede inconcussa della Chiesa, arcipastore ti fece delle pecore
spirituali. Da qui portatore delle chiavi delle porte celesti Egli, come Buono,
ti stabilì, per aprire a tutti quelli che attendono nella fede. Perciò
degnamente fosti reso degno di essere crocifisso come il tuo Sovrano: tu
intercedi presso Lui affinché salvi e illumini le anime nostre».
Dopo il «Gloria al Padre» finale, il tropario di Cosma
il monaco acclama così: «La venerabilissima festa degli apostoli viene per la
Chiesa di Cristo, procurando la salvezza a tutti noi. Perciò misticamente
applaudendo, a essi ci indirizziamo: Gioite, astri che siete raggi del Sole
spirituale per quanti stanno nelle tenebre! Gioite, Pietro e Paolo, infrangibili
fondamenta dei divini dogmi, amici di Cristo, strumenti preziosi! Siate presenti
in mezzo a noi invisibilmente, rendendo degni di doni immateriali quelli che la
vostra festa esaltano con canti».
Pietro e Paolo testimoni del Signore a Roma
Il martirio di Pietro a Roma è un fatto storico non dubitabile.
Esso fu subito circondato da una meritata aureola di gloria, e a questa presto
si aggiunsero elementi apocrifi, ricamati in leggenda. Altrettanto presto era
stata dimenticata una pagina singolare, di uno che al fatto aveva assistito da
giovane, Clemente Romano, terzo vescovo di Roma, di probabile origine ebraica.
Quando nel 96 d.C. invia tre laici romani con una lettera
«alla Chiesa di Dio che è pellegrina in Corinto», allora in preda a
dissensi e discordie gravi, pone tra l’altro come parametro a cui rifarsi in
senso negativo quanto era accaduto a Roma stessa, e che aveva portato alla morte
dei principi degli apostoli, i gloriosi Pietro e Paolo. La causa della loro
esecuzione per mano dell’autorità imperiale, secondo Clemente Romano, era stata
l’invidia e la gelosia di gruppi di cristiani stessi di Roma. Pietro e Paolo
sono così portati come esempi, si può dire attuale, quasi contemporaneo, di
quanto può l’invidia nella comunità cristiana.
Vale la pena di leggere alcuni passi di questo testo. I
paragrafi 4-6 sono dedicati a descrivere i casi dolorosi di invidia, anzitutto
Caino e Abele, Esaù e Giacobbe, il faraone e Mosè, Datan e Abiron rivoltòsi,
Saul e David (par. 4). Poi Clemente prosegue: «5. – 1. Ma affinché cessiamo
con gli esempi antichi, veniamo agli atleti fattisi più vicini a noi. Prendiamo
gli autentici esempi della nostra generazione. 2. Per gelosia e invidia le più
grandi e le più giuste colonne furono perseguitate, e fecero agone fino alla
morte. 3. Prendiamo davanti ai nostri occhi i buoni apostoli. 4. Pietro, che per
gelosia ingiusta non subì una o due, ma numerose sofferenze, e così, avendo
testimoniato [martyréô], procedette fino al lui dovuto luogo della gloria. 5.
Per gelosia e lite Paolo mostrò il premio della pazienza. 6. Sette volte avendo
portato le catene, esiliato, lapidato, diventato araldo in Oriente e in
Occidente, ricevette la gloria autentica della sua fede, 7. dopo avere insegnato
la giustizia, e essere giunto ai confini dell’Occidente [la Spagna], e avendo
testimoniato [martyréô] davanti ai governanti, così fu trasposto dal mondo e
andò nel Luogo santo, divenuto immenso modello di pazienza. 6. – 1.Con questi
uomini vissuti santamente fu radunata una grande folla di eletti, i quali,
avendo sofferto molti oltraggi e torture, divennero tra noi un bellissimo
esempio».
Clemente presenta il martirio di Pietro e Paolo a fedeli che lo
conoscevano bene. Solo che si preoccupa di annotare fatti che forse non erano
pervenuti fuori di Roma. I due apostoli furono condotti alla morte dalla polizia
imperiale a causa della gelosia e dell’invidia di fedeli di Roma, poiché i
pagani difficilmente potevano provare tali sentimenti per i cristiani, che
disprezzavano come gente di una religione abominata. La storia seguente dice che
quei medesimi delatori poi riconobbero la sublime grandezza di Pietro e Paolo,
riconoscendoli come i veri fondatori della Chiesa di Roma, ossia il popolo dei
fedeli romani quale sede apostolica: a questa sede apostolica prestigiosa
scriveva sant’Ignazio vescovo d’Antiochia e glorioso martire proprio a Roma,
allo stadio di Domiziano, oggi piazza Navona.
L’archeologia, al di là delle leggende (come la richiesta, per
umiltà, di Pietro ai carnefici di essere crocifisso a capo verso il basso; il
Quo vadis?, e altro), sulla scorta di Tacito e di Svetonio, dice che «un’ingente
folla di cristiani» furono condannati da Nerone nell’anno 64. Nel numero di essi
stava il loro apostolo, Pietro. Tutti quei padri nostri furono crocifissi,
alcuni avvolti da pelli di animali spalmate di pece, e così bruciati vivi, altri
lasciati a esser sbranati dalle bestie feroci. Il luogo è indicato accanto al
circo di Nerone, sulla direttiva della via Cornelia con la via Trionfale, ossia
nei pressi dell’attuale via della Conciliazione. Di fatto il sepolcro di Pietro
sotto la basilica costantiniana ha restituito le ossa calcinate di un uomo di
circa 60-70 anni, raccolte piamente in drappo trapunto d’oro. È difficile
dubitare che quelle ossa siano la santa spoglia del Principe degli apostoli.
Paolo seguì il fratello Pietro nella testimonianza a Cristo
Signore circa 3 anni dopo, nel 67, nella località che la tradizione senza
esitazione né mutamenti addita alle Acque Salvie, presso l’attuale area indicata
come le Tre Fontane, sulla via Laurentina. Paolo fu composto nel sepolcro
dell’area cimiteriale della via Ostiense.
Le spoglie sante di Pietro e di Paolo furono preservate dalla
loro distruzione desiderata dall’autorità imperiale collocandole per diversi
decenni nella “catacomba” per antonomasia, da cui venne il nome delle altre
catacombe, le attuali catacombe di San Sebastiano sulla via Appia. Dopo il 258
furono riportate ai rispettivi luoghi di sepoltura, dove attendono la
resurrezione finale.
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