del Protopresbitero Alexander Schmemann, sta in “Messaggero Ortodosso”, Roma, ottobre-novembre 1985 n. 10-11.
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Le parole dell’Apostolo Paolo: “In primo luogo, dunque, quando vi radunate in Chiesa” (1 Corinti 11, 18) , con le quali egli si rivolge ai Corinzi, come per lui stesso così per i primi Cristiani, si riferiscono, ad ogni modo, non al tempio, ma alla natura ed al fine dell’adunanza. Queste parole avevano avuto stesso significato per tutti i primi Cristiani. Come è noto, la parola “Chiesa” – ekklesia – indica l’assemblea, l’adunanza, la riunione. In base a ciò, secondo la concezione del più antico Cristianesimo “raccogliersi in chiesa” significa creare, realizzare un’assemblea, il cui fine consiste nel manifestare e nel realizzare la Chiesa. Quest’assemblea è di carattere eucaristico ed in essa, come suo fine e realizzazione, si compie la “Cena del Signore”, cioè la frazione eucaristica del pane. In questa stessa lettera l’Apostolo Paolo rimprovera quei Corinzi, i quali nell’assemblea si comportano in tal modo come se non avessero da mangiare la Cena del Signore. È evidente e non c’è alcun dubbio che questa triplice unità – Assemblea, Eucaristia e Chiesa – sussiste dai primi inizi del Cristianesimo, del che, sull’esempio dell’Apostolo Paolo, abbiamo un’univoca testimonianza nella tradizione primitiva della Chiesa. Compito fondamentale della teologia liturgica consiste nella scoperta del suo significato.
Tale compito è tanto più necessario in quanto questa triplice unità, che era evidente per i primi Cristiani, non lo è più per la coscienza ecclesiale contemporanea. Nella teologia, cosiddetta “Manualistica” e che dopo l’interruzione della Tradizione dei Padri, s’è sviluppata particolarmente secondo la concezione occidentale come metodo e come natura, nulla si dice del rapporto tra Assemblea, Eucaristia e Chiesa. La concezione occidentale considera l’Eucaristia come uno dei Sacramenti, ma non come “il sacramento dell’assemblea”, significato che le attribuiva ancora nel secolo V l’autore dei cosiddetti scritti areopagitici. Senza esagerare si può dire che il significato ecclesiologico dell’Eucaristia in questa nuova dogmatica è semplicemente trascurato, nello stesso modo in cui essa dimentica il significato eucaristico dell’ecclesiologia, cioè della dottrina della Chiesa. Dobbiamo pure mettere subito in evidenza che il ricordo dell’Eucaristia come “sacramento dell’assemblea” poco a poco è scomparso dalla devozione. È vero, nei manuali di liturgia è annoverata tra i pubblici servizi religiosi e si celebra, in genere, in quanto “si raccolgono i fedeli”. Ma questa “raccolta di fedeli”, cioè assemblea, s’è cessato di considerare come la primitiva “forma” della Chiesa. La devozione liturgica è divenuta all’estremo individualistica, com’è testimoniato dall’attuale pratica della comunione, che completamente dipende dalle “necessità” spirituali dell’individuo e che nessuno, né i sacerdoti, né i fedeli concepiscono nello spirito della preghiera di san Basilio il Grande: “E noi tutti, che ci comunichiamo con un unico Pane e da un unico Calice, costituisci in una unità…”. In tal modo e nella devozione e “nello spirito della Chiesa” s’è verificata certamente una riduzione “sui generis” dell’Eucaristia e del suo originario significato e funzione nella vita della Chiesa. E con il superamento di questa riduzione e con il ritorno al primitivo concetto dell’Eucaristia come “Sacramento dell’Assemblea”, e perciò come “Sacramento della Chiesa”, bisogna di conseguenza cominciare l’interpretazione dell’Eucaristia nella teologia liturgica.
In primo luogo a questo punto bisogna dire che tutte e due queste “riduzioni” dell’Eucaristia, sia nella teologia che nella devozione privata, si contrappongono apertamente a quel rito dell’Eucaristia, che la Chiesa conserva dal suo inizio. Con il termine “rito” non si intendono alcune particolarità dei riti o dei testi, che nel corso dei venti secoli della vita della Chiesa si sono sviluppati, modificati e si sono complicati, ma la struttura fondamentale dell’Eucaristia, quella sua forma, “shape”, secondo l’espressione di Dom Gregory Dix, che secondo le ultime prove, deriva dal primitivo ufficio divino cristiano, costituito dagli Apostoli. Abbiamo già detto che l’errore fondamentale della “teologia manualistica” consiste nel fatto che nella sua interpretazione del sacramento non procede dalla viva esperienza della Chiesa e dalla concreta tradizione liturgica, che in essa si conserva, ma da categorie personali aprioristiche ed astratte e da definizioni che non s’accordano sempre e pienamente con la realtà della vita ecclesiale. Nell’antichità la Chiesa ben sapeva che la “lex credendi” e la “lex orandi” sono inseparabili l’una dall’altra e che si condizionano reciprocamente, così che, secondo le parole di sant’Ireneo di Lione, “il nostro insegnamento si accorda con l’Eucaristia e l’Eucaristia conferma il nostro insegnamento”. Ma la teologia costruita secondo i modelli occidentali in genere non s’interessa dell’ufficio divino, quale è celebrato dalla Chiesa, né della logica che gli è propria, né del rito. Partendo dalle sue premesse astratte, essa a priori stabilisce ciò che è “più importante e ciò la cui importanza è minore”, poiché non presenta interesse teologico, e come tale risulta in fin dei conti proprio l’ufficio divino, nella sua complessità e varietà di forme, cioè proprio ciò di cui vive realmente la Chiesa. Nell’Ufficio divino si staccano “momenti” importanti, sui quali si concentra tutta l’attenzione del teologo. Così nell’Eucaristia questo “momento” è la trasformazione dei Santi Doni e poi la Comunione, nel Battesimo “la triplice immersione”, nel matrimonio la formula sacramentale “con gloria ed onore incoronali”, ecc…
Al teologo, che pensa secondo queste categorie, non viene in mente che il “valore” di questi momenti è indivisibile dal contesto liturgico, il quale realmente manifesta il loro autentico significato. Da ciò deriva la spaventosa povertà e unilateralità nell’interpretazione dei sacramenti e dell’accostamento ad essi nei nostri trattati dogmatici di carattere scolastico, poiché, non nutriti né sorretti, come nelle “Catechesi liturgiche” dei santi Padri, da un’autentica interpretazione liturgica, l’interpretazione e l’accostamento ad essi si riducono ad interpretazioni simboliche ed allegoriche d’ogni genere, ad una specie di “folclore” liturgico. Perciò già ebbi l’occasione di scrivere che il principio fondamentale della teologia liturgica consiste nel procedere nell’interpretazione della tradizione liturgica della Chiesa non da schemi astratti, puramente intellettualistici, imposti dal di fuori all’ufficio divino, ma dallo stesso ufficio divino e, ciò vuol dire, in primo luogo, dal suo “rito”.
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Ogni studio, per quanto modesto, ma serio e sistematico dell’Eucaristia ci deve convincere che tutto il rito eucaristico, dall’inizio alla fine, si fonda sul principio della comune celebrazione di colui che presiede il rito e del popolo, che sono tra loro interdipendenti. Questo rapporto, con maggior esattezza si può determinare come concelebrazione, come fece il defunto padre Nikolaj Afanasjev nella sua eccellente opera, “Trapeza Gospodnja” (La mensa del Signore), che purtroppo sin ora non ha ottenuto un giudizio corrispondente al suo valore. È vero, nella teologia manualistica di impronta scolastica e nella pietà liturgica, che da essa deriva, questa idea non ha nessuna importanza ed addirittura neppure ci si preoccupa di confutarla. In questa teologia il termine concelebrazione si riferisce solo ai sacerdoti che partecipano al rito, mentre la partecipazione del popolo si considera come una presenza passiva. Prova di ciò sono “le preghiere durante la divina liturgia”, che in alcuni “Liturgika” sono pubblicate a parte per i fedeli, perché le leggano durante la Liturgia. I loro autori ad ogni modo ritenevano che le preghiere dell’ufficio eucaristico riguardassero solo il clero. Ancor più triste è il fatto che i censori ecclesiastici, che [nella Russia imperiale] approvavano la pubblicazione di queste preghiere, sostennero per decenni questo punto di vista. Addirittura in trattati dotti e scritti con buona intenzione, quali la “Jevharistija” del defunto archimandrita Kiprian Kern, allorché si enumerano le condizioni necessarie per celebrare l’Eucaristia, si menziona tutto, dal sacerdote ordinato canonicamente sino alla qualità del vino, tranne l’-assemblea della Chiesa-, che, a giudicare dall’insieme, non si ritiene caratteristica della Liturgia.
Tuttavia tutte le testimonianze antiche unanimi testimoniano che l’assemblea (synaxis) s’è considerata sempre il primo e fondamentale atto dell’Eucaristia. Ciò è dimostrato anche dalla più antica denominazione liturgica di colui che celebra l’Eucaristia: proistamenos – “colui che presiede”, la cui prima funzione consiste nel presiedere l’assemblea, cioè nell’essere a capo dei fratelli. L’assemblea, in tal modo, è il primo atto liturgico dell’Eucaristia, il suo fondamento e principio. Perciò, a differenza della prassi attuale, l’assemblea nell’antichità precedeva l’ingresso di colui che la presiedeva. “La Chiesa – scrive san Giovanni Crisostomo – è la casa comune a noi tutti e voi ci precedete quando noi entriamo. Perciò subito dopo noi vi salutiamo con il segno della pace”. In modo ancor più particolare parleremo del significato dell’ingresso nel rito dell’Eucaristia quando tratteremo del cosiddetto “piccolo ingresso”. Ma già ora è necessario parlare dell’attuale prassi, secondo la quale tutto il principio della Liturgia, l’ingresso dei celebranti, la loro vestizione, la lavanda delle mani ed, infine, la preparazione dei Doni non solo sono diventati, per così dire, un atto privato, ma, quel che più conta, si sono staccati dal resto della Liturgia costituendo un apposito “rito della Santa Liturgia”, che ha una sua particolare “apolysis”. Questa prassi, per quanto formalmente codificata nell’attuale “Liturgikon”, deve essere considerata alla luce di un’altra, più antica, che pure è giunta a noi, dalla prassi cioè della celebrazione eucaristica da parte dei vescovi. Quando un vescovo celebra l’eucaristia, sono ben visibili i seguenti momenti: l’incontro del vescovo con l’assemblea, la sua vestizione in mezzo ad essa ed il fatto che egli non entra nel Santuario prima del piccolo ingresso ed infine, la ripetizione da parte sua, per così dire, della Proskomidia, prima della stessa offerta, cioè dell’attuale “Grande Ingresso”. Non è il caso di pensare che tutto ciò si è sviluppato dalla particolare “solennità” propria del rito episcopale, contro la quale riecheggiano alle volte le proteste dei zelatori della “semplicità dei primi tempi del Cristianesimo”. All’opposto il rituale pontificale ha conservato molto più, non certamente in tutti i dettagli, ma nella sua sostanza, la forma e lo spirito dell’antica prassi eucaristica, e ciò è avvenuto perché nell’antica Chiesa il vescovo ordinariamente presiedeva l’assemblea eucaristica. E soltanto molto più tardi, quando incominciò la trasformazione della locale Chiesa-comunità in un distretto amministrativo (eparchia) con la frantumazione di un gran numero di parrocchie, il sacerdote, da celebrante straordinario dell’Eucaristia (sostituto del vescovo), si trasformò in ordinario. Dal punto di vista della teologia liturgica proprio il rito dell’ingresso del vescovo nell’assemblea si può considerare più “normativo”, mentre quello del sacerdote, sorto in seguito alla necessità imposta dalle circostanze, che forse erano inevitabili, in nessun modo modifica il significato dell’assemblea nella Chiesa come reale principio, primo e fondamentale atto della Liturgia.
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Il rapporto reciproco tra colui che presiede l’assemblea e quest’ultima, la loro concelebrazione si esprime, ulteriormente, nella struttura dialogica di tutte le preghiere eucaristiche senza alcuna esclusione. Ognuna di esse ha il sigillo della parola “Amìn”, che è uno dei termini chiave del rituale cristiano, che unisce in un insieme organico colui che presiede l’assemblea ed il popolo che egli presiede. Ognuna di esse (ad eccezione della sola “preghiera del sacerdote per sé stesso” letta durante il canto dell’inno cherubico) è pronunciata a nome nostro. Tutte le parti che costituiscono la funzione eucaristica – la lettura della parola di Dio, l’offerta, la comunione – cominciano con la reciproca benedizione della pace: “Pace a tutti” – “Ed allo spirito tuo”. Ed infine tutte le preghiere hanno per contenuto la nostra lode, la nostra gratitudine, la nostra comunione e per fine “l’unione di tutti noi, l’uno con l’altro, nella comunione di un solo spirito…”.
Lo stesso si può dire anche a proposito di tutte le parti dell’ufficio eucaristico: esse tutte in varia misura esprimono non solo l’unità di colui che presiede e del popolo, ma anche la loro “synergia”, la loro collaborazione, la loro concelebrazione nel significato letterale di queste parole. Così la lettura della parola di Dio e la sua spiegazione nella predica, che costituisce, per unanime testimonianza di tutte le fonti, il contenuto della prima parte della celebrazione eucaristica, presuppongono la presenza di coloro a cui è dedicata la predica. Il trasferimento della Proskomidia nell’altare e la formazione in esso di un particolare “altarino” per le offerte, non ha annullato l’originaria prassi dell’offerta dei doni nell’assemblea da parte del popolo, il che anche si compie nell’attuale “grande ingresso”. Infine il “bacio della pace”, sebbene attualmente si compia da parte del solo clero, stando al senso dell’ekfonesis (esclamazione del sacerdote che conclude una litania n.d.r.): “Amiamoci l’un l’altro!” si riferisce a tutta l’assemblea, così come l’ekfonesis finale: “Usciamo in pace…”.
Tutto ciò richiede maggiore attenzione per il fatto che il rito “bizantino” dell’Eucaristia s’è sviluppato sistematicamente nel senso di una crescente divisione tra il “popolo” ed il “clero”, tra “coloro che pregano” e “coloro che celebrano”. La pietà liturgica bizantina sempre più ha subito l’influsso della concezione del mistero dell’ufficio divino, fondata sulla contrapposizione tra “coloro” che sono consacrati” e quanti non lo sono. Tuttavia quest’influsso s’è dimostrato incapace di modificare fondamentalmente l’originario rito dell’Eucaristia, che ancora in ogni parola ed azione esprime la concelebrazione di tutti, di ciascuno nel suo ordine e nel suo servizio, in un solo rito sacro della Chiesa. È un’altra questione il fatto che del primitivo, diretto ed immediato significato di queste parole e di quest’azione hanno cessato di essere consapevoli il clero ed i fedeli e che nella loro consapevolezza s’è manifestata una particolare distinzione tra gli “elementi” dell’Ufficio divino e la loro interpretazione e che, come risultato di questo distacco, si sono formate e sviluppate tutte le posteriori spiegazioni “simboliche” delle più semplici parole ed azioni, che spesso nulla hanno a che fare con il loro significato autentico. Sulle cause e sulle conseguenze di questa nuova pietà “nominalistica”, che, ahimè, domina quasi illimitata nella Chiesa, abbiamo già parlato e parleremo ancora. Ora tuttavia bisogna far presente che questa nuova forma di pietà non è riuscita ad ottenebrare né ad alterare, sino al punto di non riconoscerlo, il reale carattere assembleare dell’Eucaristia, strapparlo dalla Chiesa e, di conseguenza, dall’assemblea.
Il più evidente e, verosimilmente, il più triste risultato di questa nuova “pietà” è il pratico distacco dei fedeli dalla comunione, che è cessata di dipendere dalla loro partecipazione alla Liturgia e che successivamente è diventata assai rara. Tuttavia ciò non può diminuire la diretta testimonianza dell’ufficio eucaristico: “…noi tutti che ci comunichiamo da un pane e da un calice…”, “Con timore di Dio e con fede accostatevi…”, ecc… Tutti questi testi, questi inviti, queste parole si riferiscono, senza dubbio, a tutta l’assemblea e non a singoli suoi membri, come giustamente scrive l’Afanasjev: “Se respingessimo tutto ciò che è stato introdotto nella nostra vita liturgica nel corso degli ultimi secoli, non troveremmo alcuna sostanziale differenza con l’antica prassi della Chiesa”. Il difetto fondamentale della nostra vita liturgica consiste nel fatto che noi tutti attribuiamo maggior significato a particolarità, che si sono aggiunte casualmente o meno ai nostri riti eucaristici, anziché alla loro sostanza. I principi fondamentali della dottrina sull’Eucaristia vi si manifestano abbastanza chiaramente. La natura dell’Eucaristia s’è conservata in essi intatta… Perciò il nostro compito consiste non tanto nell’introdurre alcune modifiche nella nostra vita eucaristica, quanto nel conoscere l’autentica natura dell’Eucaristia.
Ed infine, il tempio, cioè il luogo nel quale si celebra l’Eucaristia, esprime ed incarna in sé questa stessa idea del raccogliersi e del concelebrare. I manuali di liturgia trattano molto ed in modo particolareggiato del tempio, della sua struttura e del significato “simbolico” delle sue varie parti, ma in queste descrizioni e definizioni quasi assolutamente non si menziona l’evidente rapporto esistente tra il tempio cristiano e l’idea dell’-assemblea- con il carattere assembleare dell’Eucaristia. Non c’è bisogno che a questo punto ripetiamo quanto detto in un’altra parte del complesso sviluppo del tempio e della “devozione nel tempio” nell’Oriente ortodosso. Basterà ricordare che il tempio cristiano agli inizi era principalmente “domus ecclesiae”, il luogo di raccolta della Chiesa dove si spezzava il pane eucaristico. Per quanto complesso sia stato questo sviluppo e quale che sia stato l’influsso di quella che abbiamo chiamato devozione “misteriologica”, fu proprio l’idea dell’assemblea nell’Eucaristia il fattore unificatore e direttivo del tempio. Come all’inizio, nella primitiva fase del Cristianesimo, così anche attualmente, nelle sue migliori realizzazioni, sia greche che russe, il tempio è vissuto e sentito come un’assemblea, come una riunione nel Cristo, del cielo, della terra e di tutta la creazione, ed in ciò consiste l’essenza ed il fine della Chiesa… Ne testimoniano anche la forma del tempio e lo stile della pittura. La forma del tempio, cioè il tempio, considerato come “organizzazione” dello spazio, esprime sostanzialmente quello stesso rapporto reciproco, quella stessa “struttura dialogica”, che caratterizzano il rito dell’assemblea eucaristica. C’è in esso questo reciproco rapporto tra il trono e l’altare da una parte, e dall’altra la navata della chiesa, cioè il luogo dell’assemblea. La navata è rivolta verso il “trono”, in esso ha il suo fine e completamento. Ma anche il “trono” è connesso con l’altare, esiste in rapporto ad esso. È vero, nell’attuale devozione liturgica l’altare è considerato come un santuario a sé stante, accessibile solo a coloro che sono “consacrati”, come un luogo doppiamente santo, che con il suo carattere “sacrale” sottolinea quasi il carattere “profano” dei fedeli che rimangono oltre i suoi limiti. Tuttavia non è difficile dimostrare che questo elemento è relativamente nuovo e falso e, quel che più conta, è profondamente dannoso per la Chiesa. Esso è una delle fonti principali del “clericalismo”, fenomeno del tutto estraneo all’Ortodossia, il quale, riduce i fedeli al livello di persona “prive”, definite in primo luogo negativamente come “non aventi diritto” di entrare in un determinato luogo, di toccare alcunché, di partecipare a qualche cosa. Da noi s’è formato, purtroppo, anche il tipo di sacerdote, che è in stato di continua “difesa” di ciò che è sacro dal contatto dei fedeli e ciò considera quasi essenza del sacerdozio e vi trova quasi una soddisfazione “sui generis”.
Ma, ripeto, un tale rapporto nei confronti dell’altare è nuovo e falso. Certo, esso dipende in gran parte dal concetto dell’iconostasi, come, in primo luogo, di una parte che divide il santuario dai fedeli e che pone un limite intransitabile per loro. Invece, per quanto possa oggi apparire strano alla maggioranza degli ortodossi, l’iconostasi sorse per motivi letteralmente opposti, non come separazione, ma come unificazione, poiché l’icona è testimonianza o, per meglio dire, la conseguenza dell’avvenuta unificazione tra l’elemento divino e quello umano, di ciò che è celeste con ciò che è terreno ed è sempre, per sua natura, icona dell’Incarnazione di Dio. Perciò anche l’iconostasi è sorta inizialmente dall’esperienza del tempio come “cielo sulla terra”, quale testimonianza del fatto che “a noi s’è avvicinato” il Regno dei Cieli. Come tutte le altre icone nella chiesa, essa è, per così dire, l’incarnazione della visione della Chiesa come unità del mondo visibile ed invisibile, come manifestazione della presenza di una realtà nuova e trasfigurata.
La tragedia consiste nel fatto che s’è prodotta una lunga interruzione nell’autentica tradizione della pittura ortodossa, che ha quasi del tutto distrutto il rapporto reciproco tra icona e tempio. Le nostre chiese attualmente non sono dipinte con icone, ma in esse si appendono numerose icone, che spesso non hanno alcun rapporto con la Chiesa nel suo insieme, oppure vengono “decorate” con ogni genere di “ornamenti”, nei quali i dettagli predominano sull’insieme e l’icona si riduce a “dettaglio” di una “composizione” decorativa. D’altra parte questa stessa tragedia portò alla graduale modificazione dapprima della forma e poi del significato dell’iconostasi. Da un ordine nella disposizione delle icone, che comportava un necessario appoggio (stasis), l’iconostasi s’è trasformata in un muro abbellito d’icone, in ciò che è in contrasto con la sua funzione originaria. Se precedentemente alle icone era necessario un muro su cui appoggiarsi, ora al muro sono necessarie le icone ed in tal modo, per così dire, esso le sottopone a sé. Se si può solo sperare che l’interesse che da ogni parte sorge per una pittura originale e per la comprensione delle icone, che è in relazione ad essa, porterà alla rinascita dell’autentico significato dell’icona nel tempio ed al ritorno a ciò che vediamo ancora in alcune antiche chiese. In esse, per così dire, le icone partecipano all’assemblea della chiesa, esprimono il suo significato, le danno il suo eterno movimento e ritmo. Assieme a tutti gli ordini di santi rappresentati nell’Iconostasi – i profeti, gli apostoli, i martiri, i gerarchi – tutta la Chiesa, tutta l’assemblea, per così dire, sale al Cielo, là dove la solleva il Cristo, al suo tavolo, al suo Regno.
È qui opportuno dire che questa nuova comprensione dell’altare e dell’iconostasi, intesi come una divisione, è falsa perché contraddice evidentemente la stessa tradizione liturgica della Chiesa. Questa conosce solo la consacrazione del tempio e dell’altare, ma non la consacrazione dell’altare diviso dalla “navata”. Tutto il tempio, come l’altare, viene unto con il sacro myron, tutto il tempio, in tal modo viene sigillato come un santuario, come un luogo sacro. Indicativo in questo rito complesso, veramente bizantino, della consacrazione di una chiesa è il momento in cui vi si portano le reliquie che debbono essere poste sull’altare. Non sulle porte reali dell’iconostasi, ma sulle porte chiuse del tempio il vescovo esclama: “Principi, aprite le vostre porte. Chi è il re della gloria? Il Signore della potenza è il re della gloria!...”. interpretando questo rito Simeone di Tessalonica, uno dei più acuti rappresentanti dell’interpretazione simbolica e “misteriologica” dell’ufficio divino, scrive: “I martiri, nelle sacre reliquie, e lo stesso vescovo rappresentano il Cristo, il tempio – il paradiso. Il vescovo legge la preghiera dell’ingresso, invocando gli angeli che concelebrano ed entrano assieme. In tal modo, benedicendo le porte del tempio ed aprendole, i celebranti entrano in chiesa come in Cielo, entrano attraverso il grande Padre, testimone di Gesù Cristo, mentre è aperta la volta celeste…”.
È del tutto chiaro che questo rito s’è formato nell’epoca in cui venivano chiamate porte reali non quelle dell’iconostasi, ma quelle della chiesa e quando questa era sentita ed intesa come il cielo sulla terra, come un luogo in cui grazie all’assemblea eucaristica della Chiesa, “a porte chiuse” passa il Signore e con lui ed in lui il suo Regno… Sul significato dell’altare nell’Eucaristia ne parleremo particolarmente a proposito del cosiddetto “piccolo ingresso”. Quanto s’è detto ora è sufficiente per sottolineare non solo l’iniziale rapporto tra il tempio e l’assemblea, ma anche il significato della chiesa come centro dell’assemblea, come “assemblea nella Chiesa” incarnata in forme architetturali in colori ed immagini.
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La Liturgia è il “sacramento dell’assemblea”. Il Cristo è venuto “per raccogliere assieme i figli di Dio dispersi” e l’Eucaristia dal suo principio è stata la manifestazione e la realizzazione dell’unità del nuovo Popolo di Dio raccolto dal Cristo e nel Cristo. È bene tenere presente che in Chiesa non si va per una preghiera individuale, ma per raccogliersi in Chiesa, e la Chiesa visibile è solo l’immagine del Tempio non fatto da mano umana, che essa rappresenta. Perciò “il raccogliersi in Chiesa” è in realtà il primo atto liturgico ed il fondamento di tutta la Liturgia, senza il quale è impossibile comprendere l’ulteriore sviluppo di questo sacramento. E quando dico: “Vado in chiesa”, queste parole significano: “Vado all’assemblea dei credenti, per costituire assieme a loro la Chiesa, per essere ciò che sono divenuto nel giorno del Battesimo, cioè membro del Corpo di Cristo, nel pieno senso della parola”, “voi siete il Corpo del Cristo e membra tra di voi”, dice l’Apostolo Paolo. Vado per dimostrare e realizzare la mia appartenenza e per testimoniare davanti a Dio ed al mondo il mistero del Regno di Dio, che è già venuto in forza. Esso è già venuto e viene in forza nella Chiesa. Ecco il mistero della Chiesa, il mistero del Corpo di Cristo: “Dove due o tre si raccolgono nel mio nome, io sono lì tra loro”. Ed il miracolo dell’assemblea in chiesa consiste nel fatto che esso non è la “somma” delle persone peccatrici ed indegne che lo costituiscono, ma il Corpo di Cristo. Molto spesso diciamo che andiamo in chiesa, per ottenere da essa un aiuto, la forza della grazia, un conforto. Ma dimentichiamo che noi stessi siamo la Chiesa, che noi la costituiamo, che il Cristo è presente nei suoi membri e che la Chiesa non è fuori o al di sopra di noi, ma che noi siamo nel Cristo e che egli è in noi. Il Cristianesimo non consiste nel fatto che offre a ciascuno la possibilità di un “perfezionamento personale”, ma principalmente nel fatto che ai Cristiani è offerto e comandato di essere Chiesa, “popolo Santo, sacerdozio reale, stirpe eletta”, di manifestare e professare la presenza del Cristo e del suo Regno nel mondo.
La santità della Chiesa, non è la nostra santità, ma è la santità del Cristo, il quale ha amato la Chiesa e si è sacrificato per essa “per santificarla… affinché fosse santa e senza macchia”. La santità dei Santi è solo la manifestazione e la realizzazione di questa santificazione, di quella Santità che ognuno di noi ha ricevuto nel giorno del battesimo, nella quale tutti siamo chiamati a crescere. Ma non potremmo crescere in essa, se non l’avessimo già come Regno di Dio, come sua presenza in noi per opera del Santo Spirito.
Ecco la ragione per cui nell’antichità tutti i Cristiani si chiamavano “Santi” e per cui l’assemblea in chiesa è il nostro servizio ed il nostro dovere principale. Noi siamo consacrati ad esso. Nell’antichità chi, senza una ragione plausibile, non partecipava all’assemblea eucaristica veniva scomunicato dalla Chiesa, in quanto si era staccato dall’unità organica del Corpo di Cristo che si manifesta nella Liturgia. Ripeto, l’Eucaristia non è “uno dei sacramenti”, una tra le tante funzioni liturgiche, ma la manifestazione della Chiesa in tutta la sua potenza, santità e pienezza e solo partecipando ad essa possiamo crescere nella santità e adempiere a tutto ciò che ci è stato comandato… La Chiesa, raccolta nell’Eucaristia, anche se è limitata a due o tre persone, è l’immagine e la realizzazione del Corpo di Cristo e solo coloro che sono raccolti possono comunicarsi, cioè essere partecipi del Corpo e del Sangue del Cristo, poiché essi lo manifestano con la loro assemblea. Mai nessuno potrebbe comunicarsi, nessuno mai sarebbe degno e “sufficientemente” santo per la comunione, se questa non fosse offerta e comandata nella Chiesa, nell’assemblea, in quell’unità misteriosa nella quale noi, componenti del Corpo di Cristo, possiamo senza condanna chiamare Dio nostro Padre ed essere partecipi della vita divina… Da ciò risulta chiaro sino a qual punto offende la “sostanza” dell’Eucaristia colui che entra nel tempio in un qualsiasi momento dell’Ufficio divino. Mantenendo in tal modo il proprio “individualismo” e la sua “libertà”, non conosce, non ha trovato il mistero della Chiesa; egli non partecipa al mistero dell’assemblea, a questo miracolo della riunificazione della natura umana, spezzata e peccatrice, nell’unità divino-umana di Gesù Cristo.
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Infine, se l’-assemblea in chiesa- è l’immagine del corpo del Cristo, l’immagine del Capo del Corpo è il sacerdote. Egli presiede l’assemblea e la guida ed è proprio questa guida che di un “gruppo di Cristiani” costituisce l’assemblea in Chiesa nella pienezza dei suoi doni. Infatti, se da un punto di vista umano il sacerdote è solo uno dei presenti all’assemblea, forse il maggior peccatore ed il più indegno, per il dono del Santo Spirito che dalla Chiesa è conservato dal giorno della Pentecoste ed incessantemente è trasmesso con l’imposizione delle mani del vescovo, egli manifesta l’onnipotenza del sacerdozio del Cristo stesso, il quale ha consacrato se stesso per noi ed è l’unico sacerdote del Nuovo Testamento: “Gesù vive per sempre, ed il suo sacerdozio non finirà mai”. Come la santità dell’assemblea non è la santità dei singoli che la compongono, ma è frutto della santificazione del Cristo, così anche il sacerdozio del sacerdote non è suo, ma del Cristo, dato alla Chiesa, in quanto essa sola è il Corpo del Cristo. Questi non è fuori della Chiesa, né ad alcuno ha delegato la sua autorità né la sua potenza, ma egli stesso è presente nella Chiesa e con il Santo Spirito ne riempie tutta la vita. Il sacerdote non è un “rappresentante”, né un “sostituto” del Cristo. Nel sacramento egli è il Cristo stesso, così come l’assemblea ne è il Corpo. Guidando l’assemblea, egli in sé manifesta l’unità della Chiesa, l’unità di tutti i suoi membri nel Cristo. In tal modo in quest’unità di colui che presiede e dell’assemblea, si manifesta l’unità divino-umana della Chiesa, nel Cristo e con il Cristo.
Perciò anche la vestizione del sacerdote, per quanto al giorno d’oggi si compia prima della Liturgia, è congiunta strettamente all’assemblea, in quanto è l’immagine, l’icona dell’unità del Cristo e della Chiesa, dell’unità di molti che costituiscono un’integrità inscindibile… La veste bianca, cioè lo sticario, è in primo luogo l’indumento bianco battesimale, che ciascuno di noi ricevette al Battesimo. È la veste di tutti i battezzati, la veste della Chiesa stessa ed indossandola il sacerdote esprime l’unità dell’assemblea, unisce tutti noi in sé. L’epitrachilion (stola) rappresenta il Salvatore che prende su di sé la nostra natura per la sua salvezza e divinizzazione, segno del fatto che questo è il sacerdozio del Cristo stesso. E così anche gli epimanichia, le mani del sacerdote, con cui egli benedice e celebra, non sono più le sue mani, ma la “destra del Cristo”… La cintura è sempre un segno di obbedienza, di prontezza, di raccoglimento, di servizio. Il Sacerdote non si eleva di propria volontà, né si pone “in alto”, ma egli è stato mandato a questo servizio, egli “non è migliore del suo Padrone”, dietro il quale va e per grazia del quale serve. E, infine, il felonio (la pianeta) è la gloria della Chiesa come nuova creazione, è la gioia, la verità e la bellezza della nuova vita, l’immagine del Regno di Dio e del Re “che è divenuto sovrano e s’è rivestito di bellezza”. La vestizione si completa con il lavacro delle mani del sacerdote. L’Eucaristia è opera di coloro a cui sono perdonati i peccati e rimesse le colpe, di chi è in pace con Dio. È questo il servizio della nuova umanità, “che un tempo non era il suo popolo, ma ora invece ha trovato grazie”. Entriamo nel tempio, ci raccogliamo in Chiesa, ci rivestiamo della veste della nuova creazione, questi sono i primi atti della celebrazione dell’Eucaristia, il Sacramento dei Sacramenti.
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