Di Gianfranco Russo, musicologo e musicista di strumenti antichi
Orchestra "Academia Montis Regalis" di Mondovì
Si possono definire prassi esecutive tutte quelle convenzioni, caratteristiche di ogni momento storico, che suggeriscono come un brano musicale debba essere interpretato, ossia: tempo, fraseggio, accentuazione, dinamica, articolazione, ornamenti, agogica, pronuncia del testo e dei suoni.
Dal 19° secolo questi elementi sono largamente segnalati nella scrittura musicale grazie a un raffinato sistema di notazione che consente al compositore di inserire in partitura una ricca messe di informazioni e rappresenta il punto di arrivo di un percorso secolare alla ricerca di un'esauriente rappresentazione grafica per l'idea sonora. Più si risale indietro nel tempo, però, più gli ausili grafici di questo tipo si riducono sino a scomparire del tutto.
Fino al 14° secolo, lo sviluppo dei sistemi di notazione fu impegnato a rendere con sempre maggiore precisione il rapporto melodico-metrico dei suoni (altezza e durata) per consegnare alla memoria scritta la testimonianza di una musica che, nata al di fuori della scrittura, era comunque trasmessa oralmente negli ambienti musicali e nelle scholae monastiche insieme con tutte quante le regole che ne caratterizzavano l'esecuzione. Dal 16° secolo ci si avvalse di un sistema di notazione dalla fisionomia già definita e condivisa, benché perfezionato nei secoli successivi, mentre l'invenzione della stampa facilitò la diffusione di grandi quantità di musiche e insieme di letteratura didattica che consentì di familiarizzarsi con i canoni del gusto, anche quando non più estesi in modo diretto da maestro ad allievo. Da questo momento in poi l'essenzialità delle informazioni contenute nella notazione antica fu assolutamente coerente con la concezione, propria di tutto il pensiero musicale preromantico, che il testo scritto fosse una sorta di canovaccio da completare secondo un sistema di regole stilistiche apprese con l'esperienza e attraverso trattati e compendi dettagliati. L'obiettivo di riproporre la musica di epoche passate secondo un criterio di autenticità, intesa come la più avanzata prossimità possibile all'estetica e alle condizioni materiali del periodo nel quale è stata composta, richiede, accanto all'adozione di prassi esecutive pertinenti, la possibilità di disporre del testo musicale originale o filologicamente corretto attraverso un lavoro di analisi comparata e di collazione tra l'originale e le sue riscritture: la cosiddetta edizione Urtext.
Dalla metà del 19° secolo, la ricezione della musica antica ha risentito di edizioni fortemente rimaneggiate e di esecuzioni alterate dal gusto romantico e postromantico: ammodernamento delle figure ornamentali, manipolazione dell'armonia, corruzione e forzatura delle forme ritmiche e dei valori metrici, realizzazione di stampo pianistico per il basso continuo, improprietà degli organici, sostituzione con strumenti moderni di altri ormai in disuso, abbandono dei temperamenti originali, uso di un suono caratterizzato da un intenso vibrato e privo di inflessione dinamica. Il lavoro di recupero e restauro delle partiture originali, unito allo studio e all'applicazione di tecniche vocali e strumentali coeve e all'uso di copie di strumenti del periodo, portò allora a quelle che furono definite esecuzioni filologiche. In realtà il rapporto esistente tra musicisti e filologi fu controverso fin dai primi tentativi che, dalla fine del 19° secolo, pionieri come A. Dolmetsch (1858-1940) misero in atto per riprodurre con una certa verosimiglianza la musica dei secoli passati. I musicisti pratici, che erano accusati da filologi e musicologi di pressappochismo scientifico e di dilettantismo nell'approccio alle fonti, controbattevano attaccando quello che definivano un distaccato lavoro di catalogazione e di congelamento dell'esperienza musicale. A differenza della disciplina letteraria affine, infatti, la filologia musicale soffre dell'impossibilità di fruizione diretta del materiale prodotto: tra la versione conforme all'originale di un brano e la sua trasformazione in evento sonoro serve un mediatore, un interprete. Inoltre la validazione di un antico testo musicale, che si presenti in una forma oggi intelligibile, sottende l'adesione selettiva a una quantità di criteri legati non solo alla già complessa traduzione grafica tra sistemi di notazione spesso non omogenei, ma anche all'intraducibilità del massiccio intervento soggettivo di improvvisazione e integrazione richiesto agli interpreti per più di undici secoli.
Il conflitto si stemperò quando il musicologo e clavicembalista T. Dart, con il suo The interpretation of music (1954), ridefinì il campo comune della pratica musicale e della ricerca storico-filologica. L'idea che a un'interpretazione credibile concorressero sia la garanzia di un testo coerente all'originale, sia una competenza specialistica dell'estetica e delle tecniche vocali e strumentali del periodo come chiavi di lettura dei segni tracciati sul foglio, aprì la strada, nel ventennio successivo, a un dibattito interdisciplinare ancora vivo e che ha visto protagonisti non solo musicisti, musicologi e filologi, ma anche storici, liutai, organologi, etnomusicologi, sociologi, fisici del suono, storici dell'arte. L'intento era quello di supportare l'attendibilità delle esecuzioni di musica antica con l'immersione in un contesto sempre più completo e particolareggiato. Per ospitare i contributi delle varie discipline nel 1973 venne fondata la rivista Early music. Un importante risultato del confronto tra le diverse prospettive è stato un cambiamento di obiettivo: non più la ricerca di una verità definitiva su come si debba riprodurre un'opera del passato, ma la ricostruzione del suo mondo sonoro più credibile, e quindi non la semplice rappresentazione delle prassi esecutive in voga, ma l'espressione delle loro motivazioni. I progressi compiuti nell'ultimo trentennio dall'organologia e dalla liuteria storica hanno aperto nuovi punti di vista. La possibilità di lavorare su strumenti di qualità, ricostruiti oppure restaurati in maniera sempre meglio documentata, consente all'interprete di misurarsi con le reali possibilità tecniche richieste in ogni epoca, cambiando la logica che vedeva gli strumenti del passato quali stadi evolutivi imperfetti di quelli oggi in uso, per stimarli, invece, come lo stato dell'arte appropriato ai principi estetici del momento, funzionali quindi a integrarne la comprensione.
La sinergia delle varie discipline ha formato musicisti sempre più specializzati nello studio documentale che spesso lavorano direttamente su facsimili degli originali. Di fatto, una certa confusione metodologica condiziona ancora molte pubblicazioni Urtext. Sotto questa definizione si pubblicano trascrizioni diplomatiche, edizioni critiche e, talvolta, semplici trasposizioni grafiche, prive di disciplina progettuale o con l'aggiunta di suggestioni esecutive, al punto che H. Ossberger (1989) sostiene provocatoriamente che il musicista può usare il facsimile per correggerne gli errori. La copia dell'originale si rivela utile per disporre di fondamentali elementi interpretativi in casi, come il cantus planus medievale, in cui il sistema di notazione è concettualmente diverso da quello moderno. Tuttavia, ancora nel 1717, F. Couperin in L'art de toucher le clavecin dichiarava: "Noi scriviamo in modo diverso da come eseguiamo." (p. 39). Il problema, allora, è come si debba leggere ciò che è stato scritto almeno fino alla fine del Settecento.
N. Harnoncourt illustra come, suonando la versione Urtext di una sinfonia di W.A. Mozart secondo la prassi esecutiva in uso oggi, non si renda giustizia all'idea del compositore, mentre solo adottando le convenzioni sottintese per qualsiasi musicista dell'epoca si possa rivelarne la trama musicale. Se è vero che solo un accurato impegno filologico può rendere disponibile un'opera di C. Monteverdi secondo la sua lezione originale, o che solo la competenza di un paleografo può decifrare la notazione alfabetica di un inno del 9° sec., ciò non è ancora sufficiente a comprendere questa musica. La mera lettura, anzi, stravolgerebbe senza dubbio il senso musicale non meno di un'edizione romanticizzata. Per fare solo un esempio, ripristinato il testo originale monteverdiano sarà necessario recuperare il diapason e il temperamento allora in uso, restituire le parti ai giusti registri vocali, ricostruire l'opportuna orchestrazione, realizzare il basso continuo, introdurre l'ornamentazione, trovare i giusti accenti del recitativo e, ancora, cogliere il senso degli 'affetti', riorganizzare tempi e ritmi, inventare le cadenze. Il tutto all'interno di un rigido confine stilistico che, una volta delineato, consentirà all'interprete di esprimersi con la grande libertà propria di quel periodo. Di qui la necessità di impratichirsi con i precetti degli autori del tempo attraverso lo studio di trattati, lettere, prefazioni alle opere, fino ad applicare le regole di prassi esecutive non perché descritte in qualche manuale, ma in quanto strumenti espressivi di un'estetica conseguente.
Particolarmente illuminanti, in questo senso, sono i momenti di transizione in cui le teorie degli innovatori, come P. de Vitry (Ars nova, 1320 ca.) o G. Caccini (Le nuove musiche, 1601), provocarono una fioritura di opere in difesa del gusto corrente, generando in tal modo una panoramica particolareggiata dei reciproci stili e tecniche. Ricca d'informazioni è anche la letteratura ai margini del mondo musicale: B. Marcello nella sua satira Il teatro alla moda (1720), mettendo alla berlina vizi e difetti di cantanti e strumentisti del suo tempo, mostra le abitudini della prassi esecutiva realmente in uso. Sono inoltre preziose le testimonianze che iconografia, narrativa e storia del costume offrono sul modo di fare musica anche in periodi nei quali, come nel Medioevo, a fronte di una vasta disponibilità di scritti sulla filosofia della musica sono quasi assenti i trattati di pratica musicale.
Una delle differenze tra scrittura e prassi esecutiva è basata sul modello declamatorio e riguarda, fin dai tempi più antichi, l'esecuzione dei valori e l'accentuazione delle note. In una grafia che solo nel 16° secolo iniziò ad adottare la barra di misura limitatamente a una funzione proporzionale, e non ritmica, l'idea musicale è libera di fluire seguendo linee non costrette dall'accentuazione cadenzata della notazione moderna. Il principio secondo cui, anche se scritte in sequenze di valori uguali, ci sono note 'buone' e note 'cattive', generava nell'esecuzione continue ineguaglianze che, oltre a dare grande respiro, bene si accordavano a un ideale di fluidità dinamica. Raramente qualche segno indicava queste ineguaglianze, ma moltissimi teorici, dal Medioevo al Barocco, si preoccupavano di determinarne meticolosamente le maniere e le varietà, in modo tale che, come avviene nello swing moderno, l'interprete ne capisse l'essenza senza però, averne l'assillo matematico. Questa disomogeneità del suono condizionava la condotta dell'arco, l'articolazione e l'emissione per la voce e gli strumenti a fiato, le diteggiature per gli strumenti a tastiera e a pizzico.
L'altro importante indirizzo estetico, ossia la ricerca della varietà, comprendeva le tecniche di completamento della traccia scritta attraverso l'improvvisazione oppure mediante l'applicazione di fioriture e abbellimenti. Lungi dall'essere ingredienti di guarnizione della melodia, come oggi si tende a pensarli, si trattava di fattori costitutivi dell'espressione musicale e dell'essenza stessa dell'opera. Tutti gli autori ne invocano un uso consapevole e appropriato, richiedono assiduità nello studio e affinamento del gusto in modo che, se ben adoperati, facciano "spicar l'armonia qua e là come tante gioie scintillanti" (G. Muffat, Florilegium, 1698, p. 6). Se i segni d'ornamento più antichi, come la plica medievale, hanno documentazione troppo scarsa perché li si possa rendere in modo più che probabile, dal 14° secolo in poi i trattati su diminuzione e abbellimento risultano dettagliati nonché esaurienti. Ugualmente lo sono per altri interventi strutturali dell'interprete, come i preludi, le cadenze, il cardine della musica barocca: la realizzazione del basso continuo.
Negli ultimi anni l'aumento dell'interesse per esecuzioni filologiche, o storicamente informate, di autori più recenti che vantano continuità esecutiva con gli usi moderni, come L. van Beethoven oppure J. Brahms, ne ridetermina il perimetro concettuale orientandolo non a un circoscritto corpus di musiche, ma a un'attitudine mentale. Anche nelle dettagliate partiture del 19° secolo restano i margini per adottare prassi esecutive più appropriate di quella tradizionale: uso di diapason e strumenti del periodo, riequilibrio degli organici, agogica, qualità dell'emissione, discrezionalità dell'interprete. L'approccio filologico diventa così strumento d'interpretazione per qualsiasi musica intorno a cui esista materiale documentale, contestualizzandone la ragion d'essere e designandola quale testimone della cultura che l'ha generata.
bibliografia
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E. Fubini, L'estetica musicale dall'antichità al Settecento, Torino 1964.
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J. Kerman, Musicology, London 1985.
H. Haskell, The early music revival: a history, London 1988.
H. Ossberger, Interpret und Autograph, in Österreichische Musikzeitschrift, 1989, 3-4, pp. 142-46.
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