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lunedì 26 novembre 2012

Ancora sulla Sindone di Torino

Sottopongo all'attenzione dei lettori questo interessante articolo di un chimico del Dipartimento di Chimica Organica dell'Università di Pavia, che conferma le tesi espresse da Padre Theocleto, esposte nell'articolo in francese pubblicato qualche giorno fa..

Qui trovate altre informazioni: http://sites.google.com/site/luigigarlaschelli/shroudreproduction

E’ possibile riprodurre la Sindone? di Luigi Garlaschelli

Storia della Sindone di Torino

La Sindone di Torino non è affatto nota dal primo secolo dopo Cristo. Questa discussa reliquia comparve improvvisamente in Francia, a Lirey, verso il 1357, proprietà dei discendenti di Goffredo di Charny, un piccolo feudatario. Immediatamente Henri de Poitiers, il vescovo della locale diocesi (Troyes) si oppose all’ostensione che veniva fatta del telo, ritenendolo un evidente falso. Infatti i Vangeli non ne parlano, né egli riteneva verosimile che esso fosse rimasto sconosciuto per tredici secoli. Le ostensioni ripresero trent’anni dopo, e ancora il nuovo vescovo, Pierre d’Arcis, si oppose. Dopo un lungo braccio di ferro tra lui e il decano della chiesa ove avvenivano le ostensioni, nel 1389 il vescovo si appellò al Papa Clemente VII con un lungo memoriale, nel quale si racconta come il suo predecessore avesse addirittura trovato l’artista che l’aveva "astutamente dipinta".

Il papa permise le ostensioni a patto che si dicesse ogni volta che si trattava di una raffigurazione, e non del vero Sudario di Cristo. Le ostensioni cessarono, e il Telo passò poi, tramite la nipote di Goffredo, ai Savoia; costoro la trasferirono prima a Chambéry (ove essa subì i danni di un incendio, ancora visibili), e poi a Torino. Dimenticate lentamente le poco nobili origini e le polemiche iniziali della Sindone, i Savoia ne promossero sempre più il culto, fino ad ottenere l’avallo dichiarato di alcuni papi, come Giulio II. Tra le mille reliquie medievali, come spine della corona, pezzi di legno e chiodi della croce, sandali e tunica di Gesù, frammenti del suo cordone ombelicale ed altro ancora, le sindoni non erano una novità. Generalmente erano teli bianchi (i Vangeli non citano alcuna impronta su di essi). Esistevano invece dei piccoli asciugamani detti Veroniche o, in oriente, mandylion, su cui, secondo varie leggende, Gesù avrebbe lasciato impresso il suo volto da vivo: con gli occhi aperti, e nessun segno della Passione. Ne erano esempi famosi il mandylion di Edessa e, nel Trecento, il sacro Volto di Roma e quello di Genova (ne parla anche Dante). E’ forse dall’unione dei due concetti di impronta miracolosa e di sudario che nacque l’idea di una sindone recante l’impronta dell’intero corpo. Nel nostro secolo, anche prima delle raffinate analisi spettroscopiche, l’implausibilità della Sindone di Torino fu affermata da molti, per varie ragioni: una tessitura mai usata nel primo secolo; il modo in cui si sarebbe dovuto ricoprire il cadavere, contrario agli usi ebraici del tempo; la resa chiaramente artistica dei capelli, delle colature di sangue, degli arti; e soprattutto la totale mancanza delle deformazioni geometriche che sarebbero da attendersi da un’impronta lasciata - con qualunque mezzo - da un corpo umano su un telo avvolto o appoggiatovi, ecc.

Che cosa è la Sindone

La Sindone di Torino è un telo di lino che misura m 4,40 x 1,10 circa, tessuto a “spina di pesce”. Reca la tenue impronta, frontale e dorsale, di un uomo rappresentante Gesù e recante i segni della passione: segni di flagello, tracce di sangue alla fronte, alle mani, ai piedi e al costato. Sul telo sono visibili anche aloni dovuti all’azione dell’acqua, e varie bruciature, residue dell’incendio subìto a Chambéry nel 1532. Nel 2002 la Sindone fu sottoposta a un restauro nel corso del quale sono state tolte le toppe che coprivano i fori delle bruciature e la tela alla quale era cucita, e che ne copriva la parte posteriore. E’ ora conservata distesa in una speciale teca, in una cappella del Duomo di Torino.

Moderne analisi

Ovviamente, su una sindone falsa si potrebbe trovare sangue, coloranti, o entrambi; ma una sindone vera - anche se fosse stata ritoccata con colori - deve necessariamente possedere tracce di sangue. Una prima commissione di indagine istituita dal cardinale Pellegrino nel 1973 diede però risultati deludenti. Su dieci fili prelevati da varie macchie di "sangue" il laboratorio di analisi forensi del prof. Giorgio Frache di Modena ebbe solo risultati negativi. Esami microscopici condotti da Guido Filogamo e Alberto Zina non mostrarono tracce di globuli rossi o altri corpuscoli tipici del sangue. La quantità di materia sui fili nelle zone delle macchie è così grande che difficilmente tali analisi avrebbero potuto produrre dei "falsi negativi". Si videro invece granuli di una materia colorante che non si dissolveva in glicerina, acqua ossigenata o acido acetico, e sulla cui natura non ci si pronunciò. Le analisi per cromatografia su strato sottile eseguite da Frache furono pure negative. Un altro membro della commissione, Silvio Curto, trovò tracce di un colorante rosso. Si deve anche notare che il "sangue" sulla Sindone è ancora molto rosso, mentre è ben noto che normalmente la degradazione dell’emoglobina lo rende scurissimo in breve tempo.

Nel 1978 l’allora vescovo di Torino cardinale Ballestrero (coadiuvato dal professor Gonella del Politecnico di Torino in qualità di consulente scientifico) permise una nuova serie di analisi. La Sindone fu esaminata per 120 ore da un gruppo di scienziati americani, lo STURP (Shroud of Turin Research Project), che la sottopose a una serie di test chimici, fisici e spettroscopici sui quali ancora oggi si discute. In netto contrasto con i risultati predetti, i chimici dello STURP Heller e Adler - nessuno dei quali è però un esperto di analisi forensi, e che furono i soli ad eseguire queste microanalisi - dissero di avere accertato la presenza di sangue perché avevano ottenuto le reazioni tipiche delle porfirine. Nessuna delle loro ulteriori analisi è specifica per il sangue. Il test delle porfirine, per es., sarebbe positivo anche su tracce di origine vegetale.

Nel 1980 il notissimo microscopista americano Walter McCrone trovò sui nastri che la commissione dello STURP gli aveva passato tracce di ocra rossa, cinabro (HgS: pigmento rosso molto usato nel medioevo) e di alizarina (pigmento vegetale rosso-rosa). McCrone riportò inoltre la presenza di un legante per le particelle di pigmento che vide, che potrebbe essere collagene (gelatina) o bianco d’uovo. In pratica si tratterebbe di colori a tempera. Recentemente la presenza di sangue umano (gruppo AB) sarebbe stato ri-dimostrato grazie ad analisi immunologiche: test tanto sensibili da rendere difficile discriminare tra campione e inquinamenti. Lo STURP - molti componenti del quale erano convinti fautori dell’autenticità della reliquia - raccomandò una nuova serie di analisi. Una sola di queste fu eseguita nel 1988: la radiodatazione col metodo del 14C. Ancora il cardinale Ballestrero e Gonella scelsero i tre laboratori, a livello mondiale, con maggior esperienza in questa tecnica: Tucson, Oxford e Zurigo. Coordinatore fu il professor Tite del British Museum, considerata un’istituzione prestigiosa al di sopra delle parti. Il 21 aprile 1988 furono prelevati piccoli campioni da un angolo del telo. I risultati complessivi 6 dei tre laboratori furono resi pubblici dal cardinale Ballestrero in una conferenza stampa indetta a Torino il 13 ottobre 1988.

I test di datazione circoscrissero l’età del telo (con una fiducia del 95%) al periodo compreso fra il 1260 e il 1390. L’età accertata del Lino coincide dunque con l’età storica nota. Nel comunicato ufficiale, così come nella conferenza stampa, il prelato dimostrò di accettare e adeguarsi ai risultati del test: "Penso non sia il caso di mettere in dubbio i risultati. E nemmeno è il caso di rivedere le bucce agli scienziati se il loro responso non quadra con le ragioni del cuore".

Caratteristiche dell’immagine

Le caratteristiche intrinseche dell’immagine sono molto interessanti. Essa viene paragonata a una specie di negativo fotografico, il cui positivo, (quello che spesso vediamo), appare così realistico. Altri fatti indiscussi sono che l’immagine è molto tenue, sfumata, superficiale (non passa dall’altra parte del telo), e che non è prodotta da pigmenti o coloranti, (a differenza delle macchie di sangue, che intridono tutto lo spessore della tela con una sostanza che incolla le fibre, e in cui sono visibili particelle rosse). Le microtracce di ocra trovate da McCrone, e confermate anche recentemente, non sarebbero responsabili dell’immagine se non in misura trascurabile, ma sono un utile indizio. L’immagine è dovuta ad un ingiallimento delle fibre di cellulosa, in pratica a una degradazione dovuta a disidratazione e ossidazione. Le analisi spettrali dello STURP indicano che l’immagine del corpo ha proprietà estremamente simili a quelle delle bruciature, ancora ben visibili, che la Sindone subì in un incendio nel 1532. Nel suo rapporto finale lo STURP considera sia l’ipotesi di una strinatura che quella di una disidratazione chimica come molto verosimili, pur ammettendo che la reale origine dell’immagine non è risolta.

Ipotesi sull’origine dell’immagine

La difficoltà nello spiegare queste caratteristiche induce molti a escludere l’opera di un falsario. In realtà sono stati proposti almeno due metodi atti a generare una simile immagine. Il primo, ideato dal prof Vittorio Pesce Delfino nel 1982, prevede l’uso di un bassorilievo di metallo riscaldato. Appoggiandovi sopra un telo, questo si strina, permettendo di ottenere automaticamente un’impronta negativa, indistorta, sfumata, indelebile, non pittorica, ecc. Benché ingegnosa, questa tecnica presenta ovvie difficoltà nel controllo della temperatura dei due bassorilievi necessari (uno per la parte anteriore, e uno per quella posteriore) e del breve tempo per il quale il telo deve essere premuto su di essi. Il rischio è di non ottenere alcuna immagine, o al contrario di bruciare il telo. Il secondo metodo, proposto da Joe Nickell nel 1983, parte ancora da un bassorilievo (di gesso, o legno, a temperatura ambiente) su cui si dispone un telo. Questo viene poi strofinato con un tampone e del colore in polvere, a secco, per esempio ocra rossiccia. Nel corso dei secoli l’ocra si sarebbe persa, ma tracce acide contenute nel pigmento iniziale avrebbero prodotto la debole immagine residua che ammiriamo oggi. A sostegno di questa congettura vi sono anche microparticelle di ocra ritrovate da McCrone solo nelle aree dell’immagine.

Il nostro studio

Abbiamo provato a seguire il promettente metodo suggerito da Nickell, il quale si era però limitato al solo volto, e aveva utilizzato solo normale ocra. Innanzitutto abbiamo fatto tessere un telo di lino a “spina di pesce” esattamente uguale a quello della Sindone, sia come tipo di filato che come peso. Abbiamo poi verificato se fosse possibile ottenere un’immagine simil-sindonica di un intero corpo. Il telo è stato disteso sopra un volontario, e con un tampone sporcato di ocra rossiccia sono state sfregate solo le parti più in rilievo. L’immagine è stata poi rifinita a mano libera dopo avere steso il telo su una superficie piana. Abbiamo infatti constatato che non è possibile applicare il colore col tampone in modo uniforme quando sotto il telo si trova ancora il corpo. Il solo volto è stato realizzato con un bassorilevo di gesso. Questo è il solo modo di evitare una distorsione completa dei lineamenti e ottenere un risultato simile al volto della Sindone. Con della tempera liquida sono stati poi aggiunti i segni dei colpi di flagello e le macchie di sangue. Il risultato (Fig. 1a 1b ) è presumibilmente simile a come la Sindone doveva apparire appena prodotta. Dunque un’immagine molto più visibile per i fedeli di quella estremamente tenue di oggi.

Fig. 1a . Riproduzione Sindone (solo ocra), positivo.

Fig. 1b - Riproduzione Sindone (solo ocra), negativo

Successivamente, abbiamo aggiunto l’equivalente delle impurezze che sarebbero sate presenti nell’ocra usata dall’artista medievale. Dopo svariati tentativi con diversi sali e acidi, è stato utilizzato dell’acido solforico all’1,2-1,3 % circa in acqua, il quale è stato mescolato con un pigmento inerte in polvere, ottenendo una specie di pappetta semifluida. Non abbiamo trovato alcuna adatta sostanza chimica solida da mescolare al pigmento. Questo è chiaramente una carenza del nostro esperimento, poiché ottenere immagini sfumate applicando una polvere colorata è molto più semplice che applicando una miscela fluida. Il pigmento utilizzato con l’acido è stato il Blu di cobalto (chimicamente: alluminato di cobalto). Abbiamo deciso di utilizzare un pigmento blu poiché, una volta rimosso, le sue eventuali tracce residue non si potessero confondere con il colore delle fibre ingiallite del lino che sono quelle responsabili dell’immagine.

Il procedimento descritto prima è stato ripetuto utilizzando una tela di lino preventivamente invecchiata per riscaldamento in una stufa a 215 °C per 3 ore e poi lavata. Misure di riflettanza nel visibile ci hanno assicurato che il colore ottenuto è simile a quello misurato sulla Sindone. Per i primi esperimenti ci siamo limitati al volto, ottenuto sfregando il telo adagiato sul bassorilievo, e strofinata con un tampone utilizzando la pappetta di pigmento blu e acido. Il tutto è stato sottoposto a un invecchiamento artificiale accelerato di 3 ore a 140 °C. Il processo di distacco del pigmento è stato simulato per lavaggio del telo. Il risultato è, come sperato, un’immagine tenue, sfumata, dovuta solo a un ingiallimento delle fibre superficiali del lino, e non è fluorescente all’UV. Il negativo (Fig. 3) è somigliante a quello del volto sindonico (Fig. 2 ) e se elaborato al computer mostra analoghe proprietà 3D (Fig. 4 e 5 )

Fig. 2 - volto Sindone (neg.)

Fig. 3 – Riproduzione volto (neg.)

Fig. 4 - Volto Sindone, elaborazione 3D

Fig. 5 – Riproduzione, elaborazione 3D

Desiderando ripetere il processo a grandezza naturale, la tela è stata stesa sul corpo del volontario, strofinata col pigmento acido, poi rifinita a mano libera. Per il volto è stato utilizzato ancora il bassorilievo. Sullo stesso telo, lungo circa 4,40 metri, è stata impressa l’impronta frontale e quella dorsale del corpo. Il riscaldamento – prima parte dell’invecchiamento artificiale - è stato effettuato in un apposito forno (detto “La Machina della Sindone”. Fig. 6 ).

                                                                        Fig. 6 - La “Machina” della Sindone

La tela è stata infine lavata per eliminare il pigmento. Sono stati aggiunti infine gli aloni dovuti all’acqua che in passato aveva intriso la Sindone, le macchie di sangue (con una miscela di ocra rossa, cinabro e alizarina) e simulate le vistose bruciature visibili sulla Sindone, risalenti all’incendio di Chambery del 1532.

Fig. 7 – Sindone di Torino. Positivo

Fig. 8 – Riproduzione, positivo

Fig. 9 – Sindone di Torino. Negativo

Fig. 10 – Riproduzione, negativo

2 commenti:

  1. Sono una studiosa di tessuti antichi, mi interesso della Sindone dalla pubblicazione del saggio di Baima Bollone. Segnalo che Gabriel Vial del CIETA di Lione aveva eseguito un'analisi tecnica del tessuto e concluso che si trattava di un lino medioevale. Personalmente credo che non si tratti di un falso. Forse il telo avvolse un altro martire o un condannato vissuto molti secoli dopo Cristo.
    Complimenti per il vostro lavoro.
    Dr. Daniela Lunghi

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  2. La ringrazio moltissimo per il suo contributo che conferma (se non mi sbaglio)il responso di un'altra analisi precedente.
    Anch'io sono convinto che la sindone non sia un "falso", semplicemente non è il sudario di Cristo. Sono altrettanto convinto che, sia autentica o no, nulla cambia (né dovrebbe) cambiare nella fede di un Cristiano.
    Sarò lieto, se lo vorrà, di ospitare su queste pagine qualche suo scritto interessante sui tessuti antichi.
    Grazie per i complimenti, cordiali saluti.
    P. Marco

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