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venerdì 1 gennaio 2016

Padre Alexander Schmemann: “L’anno nuovo”

Traduzione e introduzione dell’Arciprete Sergio Mainoldi

Conclusi i fragori dei festeggiamenti per l’arrivo del nuovo anno i cristiani ortodossi che seguono il calendario giuliano si apprestano alla festa del Natale di Nostro Signore Gesù Cristo, cercando di trovare in sé il silenzio e la luce di Betlemme, lontano dagli scoppi e dai bagliori del mondo. Ci sembra dunque di una qualche utilità pastorale riportare le considerazioni del grande teologo russo della diaspora, P. Alexander Schmemann, in cui si rivela il significato spirituale (o meglio, anti-spirituale) che l’attesa dell’avvenire, quale si rivela particolarmente nel passaggio all’anno nuovo, ha assunto in una società completamente votata al secolo. Nel volume “Vous tous qui avez soif. Entretiens spirituels” (YMCA Press, Paris, 2005), da cui riportiamo in nostra traduzione dal francese, P. Alexander, nel contesto di un capitolo consacrato alla Nascita di Cristo, dedica un paragrafo a «L’anno nuovo», nel quale leggiamo quanto segue.

Il Nuovo Anno è costume antico: nel momento in cui sentiamo i dodici rintocchi di mezzanotte, noi esprimiamo desideri, ci rivolgiamo all’avvenire ignoto con i nostri sogni, sperando di ottenere ciò di cui abbiamo bisogno, quel che ci sta maggiormente a cuore. Ecco un altro Anno Nuovo. Cosa possiamo desiderare per noi, per gli altri, per ciascuno, per tutti? Verso quale obiettivo indirizziamo la nostra speranza? Essa è riposta su un’unica parola, che non sparisce mai, la felicità. I nostri desideri per l’anno nuovo si accompagnano al nostro augurio di nuova felicità! Per ciascuno di noi questa felicità ha un contenuto personale. Ma il fatto di credere che essa possa realizzarsi, che la si possa attendere, sperarla, è credenza è comune a tutti. Ma quando l’uomo è veramente felice?

Oggi, dopo tanti secoli di esperienza, dopo tutto quello che abbiamo imparato sull’uomo, non possiamo più assimilare la felicità a un solo obiettivo esteriore: la ricchezza, la salute, il successo, che – tutti sappiamo – non coincidono con la nozione, sempre misteriosa e insondabile, di felicità.

Certo, le soddisfazioni portano evidentemente una forma di felicità, destinata però a rimanere imperfetta. La ricchezza porta felicità, ma è anche un tormento; il successo porta felicità, ma anche timore. È sorprendente infatti constatare che quanto più questa felicità esteriore sia grande, tanto più essa sia fragile, tanto più cresca la paura di perderla, di non mantenerla, di lasciarsela scappare. Forse, durante il veglione di Capodanno si parla tanto di «nuova felicità» perché la «vecchia felicità» non è mai stata raggiunta veramente e che le manchi sempre un ché. Allora, di nuovo, noi volgiamo il nostro sguardo al futuro, con senso di supplica e con una speranza ammantata di sogni…

Eppure, non è da poco tempo che sono state dette parole, nel Vangelo, a proposito di un uomo che si era arricchito e aveva costruito nuovi granai per i suoi raccolti: costui aveva concluso che nulla gli mancava, che aveva raggiunto la garanzia della felicità. E da lassù venne chiamato. Nella notte gli fu detto: «Insensato! Questa notte stessa ti sarà chiesta la tua anima, e a chi andrà tutto ciò che hai accumulato?».

Noi ben sappiamo, dall’intimo della nostra coscienza, che qualsiasi cosa noi facciamo, non possiamo impedire che l’avvenire si affacci sulla disgregazione, sulla morte, questo veleno che contamina la nostra piccola e limitata felicità. È quasi certamente per questo motivo che si è affermato il costume, durante il veglione di Capodanno, nel momento in cui cominciano a rintoccare i dodici battiti di mezzanotte, di fare rumore, di urlare, di riempire il mondo di fracasso. È per paura di ascoltare, nel silenzio e nella solitudine, il carillon dell’orologio, questa voce inesorabile del destino. Via un battito, un secondo, un terzo e così di seguito, fino alla fine, con una regolarità implacabile, terribile, dacché noi non possiamo cambiare e fermare nulla.

Ecco i due poli indissolubili, impressi nel più profondo della coscienza umana: la paura e la felicità, il timore e il sogno. La nuova felicità di cui sogniamo, al risveglio del primo dell’anno, è una felicità che dovrebbe alleviare, dissolvere e vincere completamente la paura, una felicità nella quale non si nasconderebbe questo timore, che è latente in qualche anfratto della nostra coscienza e al quale noi cerchiamo di sfuggire tramite l’alcool, i giochi, il rumore.

«Insensato!». Sì, l’eterno sogno di felicità in un mondo votato alla paura e alla morte è fondamentalmente insensato. L’uomo che raggiunge un certo livello culturale ne è ben consapevole. Con che dolorosa puntualità e tristezza riecheggiano le parole di Puskin, questo grande innamorato della vita: «Non c’è felicità sulla terra». Quale immensa malinconia pervade ogni autentica opera d’arte. Ma là, nella piazza, la folla fa baccano, si spolmona e pensa che con il fracasso e il divertimento disordinato arrivi la felicità.

No, essa viene soltanto quando l’uomo scruta nella profondità dell’esistenza, con risolutezza e coraggio, allorché le strappa il suo velo di menzogna, d’illusione, allorché fissa dritto negli occhi la paura. L’autentica felicità, immutabile, arriva solo quando l’uomo prende coscienza che essa risiede nell’incontro con la Verità, con l’Amore, con quel che è infinitamente sublime e puro, e che lui ha chiamato e chiama Dio.

«In Lui era la vita, e la vita era la luce degli uomini e la luce è rifulsa nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta». Questo significa: non nascondere la vita sotto la paura, lo spavento, non dissolverla nel dolore e nella disperazione.

Se gli uomini potessero trovare, nella loro sete febbricitante di una felicità effimera, la forza di fermarsi, di riflettere, di tuffarsi per un istante nel profondo della vita! Se potessero cogliere quali parole, quale voce si rivolge eternamente a loro! Se potessero rendersi conto di cos’è la vera felicità.

«La vostra gioia, nessuno ve la toglierà!». Ora, quando l’orologio rintocca, non sogniamo forse una gioia che nulla ci potrà mai più portare via? In verità, noi raggiungiamo solo raramente una tale consapevolezza. Ci spaventiamo e rimandiamo tutto a dopo: “Mi occuperò dell’essenziale, dell’eternità, domani o dopodomani. Non oggi. C’è ancora tempo”. Ma il tempo è così poco! Ancora poco e la lancetta arriverà all’attimo finale.

Tuttavia, qui accanto a noi, Qualcuno attende: «Ecco che aspetto alla porta e busso». Se non avessimo paura di accorgerci di Lui, percepiremmo una tale luce, una tale gioia, una tale pienezza che alla fine comprenderemmo, di certo, cosa significa questa parola insondabile e misteriosa, felicità.

Protopresbitero Alexander Schmemann

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