Sant’Antonio nacque a Coma, nel cuore dell'Egitto, intorno al
250, a vent'anni abbandonò ogni cosa per vivere dapprima in una plaga deserta e
poi sulle rive del Mar Rosso, dove condusse vita anacoretica per più di 80 anni:
morì, infatti, ultracentenario nel 356. Già in vita accorrevano da lui, attratti
dalla fama di santità, pellegrini e bisognosi di tutto l'Oriente. Anche
Costantino e i suoi figli ne cercarono il consiglio. La sua vicenda è raccontata
da un discepolo, sant'Atanasio, che contribuì a farne conoscere l'esempio in
tutta la Chiesa. Per due volte lasciò il suo romitaggio. La prima per confortare
i cristiani di Alessandria perseguitati da Massimino Daia. La seconda, su invito
di Atanasio, per esortarli alla fedeltà verso il Concilio di Nicea.
Dopo la pace costantiniana, il martirio cruento dei cristiani
diventò molto raro; a questa forma eroica di santità dei primi tempi del
cristianesimo, subentrò un cammino di santità professato da una nuovo stuolo di
cristiani, desiderosi di una spiritualità più profonda, di appartenere solo a
Dio e quindi di vivere soli nella contemplazione dei misteri divini. Questo fu
il grande movimento spirituale del Monachesimo, che avrà nei secoli successivi
varie trasformazioni e modi di essere; dall'eremitaggio alla vita comunitaria;
espandendosi dall'Oriente all'Occidente e diventando la grande pianta spirituale
su cui si è poggiata la Chiesa, insieme alla gerarchia apostolica.
Anche se probabilmente fu il primo a instaurare una vita
eremitica e ascetica nel deserto della Tebaide, Sant'Antonio ne fu senz'altro
l’esempio più stimolante e noto, ed è considerato il caposcuola del Monachesimo.
Conoscitore profondo dell’esperienza spirituale di Antonio, fu Sant’Atanasio
(295-373) vescovo di Alessandria, suo amico e discepolo, il quale ne scrisse una
bella e veritiera biografia.
Antonio nacque verso il 250 da una agiata famiglia di
agricoltori nel villaggio di Coma, attuale Qumans in Egitto e verso i 18-20 anni
rimase orfano dei genitori, con un ricco patrimonio da amministrare e con una
sorella minore da educare. Attratto dall'ammaestramento evangelico “Se vuoi
essere perfetto, va’, vendi ciò che hai, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel
cielo, poi vieni e seguimi”, e sull’esempio di alcuni anacoreti che vivevano nei
dintorni dei villaggi egiziani, in preghiera, povertà e castità, Antonio volle
scegliere questa strada e venduto i suoi beni, affidata la sorella a una
comunità di vergini, si dedicò alla vita ascetica davanti alla sua casa e poi al
di fuori del paese. Alla ricerca di uno stile di vita penitente e senza
distrazione, chiese a Dio di essere illuminato e così vide poco lontano un
anacoreta come lui, che seduto lavorava intrecciando una corda, poi smetteva si
alzava e pregava, poi di nuovo a lavorare e di nuovo a pregare; era un angelo di
Dio che gli indicava la strada del lavoro e della preghiera, che sarà due secoli
dopo, la regola benedettina “Ora et labora” del Monachesimo occidentale. Parte
del suo lavoro gli serviva per procurarsi il cibo e parte la distribuiva ai
poveri; dice Sant'Atanasio, che pregava continuamente ed era così attento alla
lettura delle Scritture, che ricordava tutto e la sua memoria sostituiva i
libri.
Dopo qualche anno di questa edificante esperienza, in piena
gioventù cominciarono per lui durissime prove, pensieri osceni lo tormentavano,
dubbi l’assalivano sulla opportunità di una vita così solitaria, non seguita
dalla massa degli uomini né dagli ecclesiastici, l’istinto della carne e
l’attaccamento ai beni materiali che erano sopiti in quegli anni, ritornavano
prepotenti e incontrollabili. Chiese aiuto ad altri asceti, che gli dissero di
non spaventarsi, ma di andare avanti con fiducia, perché Dio era con lui e gli
consigliarono di sbarazzarsi di tutti i legami e cose, per ritirarsi in un luogo
più solitario. Così ricoperto appena da un rude panno, si rifugiò in un’antica
tomba scavata nella roccia di una collina, intorno al villaggio di Coma, un
amico gli portava ogni tanto un po’ di pane, per il resto si arrangiava con
frutti di bosco e le erbe dei campi. In questo luogo, alle prime tentazioni
subentrarono terrificanti visioni e frastuoni, in più attraversò un periodo di
terribile oscurità spirituale, ma tutto superò perseverando nella fede in Dio,
compiendo giorno per giorno la sua volontà, come gli avevano insegnato i suoi
maestri.
Quando alla fine Cristo gli si rivelò illuminandolo, egli
chiese: “Dov'eri? Perché non sei apparso fin da principio per far cessare le mie
sofferenze?”. Si sentì rispondere: “Antonio, io ero qui con te e assistevo alla
tua lotta…”. Scoperto dai suoi concittadini, che come tutti i cristiani di quei
tempi, affluivano presso gli anacoreti per riceverne consiglio, aiuto,
consolazione, ma nello stesso tempo turbavano la loro solitudine e
raccoglimento, allora Antonio si spostò più lontano verso il Mar Rosso. Sulle
montagne del Pispir c’era una fortezza abbandonata, infestata dai serpenti, ma
con una fonte sorgiva e qui nel 285 Antonio si trasferì, rimanendovi per 20
anni. Due volte all’anno gli calavano dall’alto del pane; seguì in questa nuova
solitudine l’esempio di Gesù, che guidato dallo Spirito si ritirò nel deserto
“per essere tentato dal demonio”; era comune convinzione che solo la solitudine,
permettesse alla creatura umana di purificarsi da tutte le cattive tendenze,
personificate nella figura biblica del demonio e diventare così uomo nuovo.
Certamente solo persone psichicamente sane potevano affrontare
un’ascesi così austera come quella degli anacoreti; non tutti ci riuscivano e
alcuni finivano per andare fuori di testa, scambiando le proprie fantasie per
illuminazioni divine o tentazioni diaboliche. Non era il caso di Antonio;
attaccato dal demonio che lo svegliava con le tentazioni nel cuore della notte,
dandogli consigli apparentemente di maggiore perfezione, spingendolo verso
l’esaurimento fisico e psichico e per disgustarlo della vita solitaria; invece
resistendo e acquistando con l’aiuto di Dio, il “discernimento degli spiriti”,
Antonio poté riconoscere le apparizioni false, compreso quelle che simulavano le
presenze angeliche. E venne il tempo in cui molte persone che volevano dedicarsi
alla vita eremitica, giunsero al fortino abbattendolo e Antonio uscì come
ispirato dal soffio divino; cominciò a consolare gli afflitti ottenendo dal
Signore guarigioni, liberando gli ossessi e istruendo i nuovi discepoli. Si
formarono due gruppi di monaci che diedero origine a due monasteri, uno ad
oriente del Nilo e l’altro sulla riva sinistra del fiume, ogni monaco aveva la
sua grotta solitaria, ubbidendo però ad un fratello più esperto nella vita
spirituale; a tutti Antonio dava i suoi consigli nel cammino verso la perfezione
dello spirito uniti a Dio.
Nel 307 venne a visitarlo il monaco eremita Sant’Ilarione
(292-372), che fondò a Gaza in Palestina il primo monastero, scambiandosi le
loro esperienze sulla vita eremitica; nel 311 Antonio non esitò a lasciare il
suo eremo e si recò ad Alessandria, dove imperversava la persecuzione contro i
cristiani, ordinata dall’imperatore romano Massimino Daia († 313), per sostenere
e confortare i fratelli nella fede e desideroso lui stesso del martirio. Forse
perché incuteva rispetto e timore reverenziale anche ai Romani, fu risparmiato;
le sue uscite dall’eremo si moltiplicarono per servire la comunità cristiana,
sostenne con la sua influente presenza l’amico vescovo di Alessandria,
Sant’Atanasio che combatteva l’eresia ariana, scrisse in sua difesa anche una
lettera a Costantino imperatore, che non fu tenuta di gran conto, ma fu
importante fra il popolo cristiano. Tornata la pace nell’impero e per sfuggire
ai troppi curiosi che si recavano nel fortilizio del Mar Rosso, decise di
ritirarsi in un luogo più isolato e andò nel deserto della Tebaide, dove prese a
coltivare un piccolo orto per il suo sostentamento e di quanti, discepoli e
visitatori, si recavano da lui per aiuto e ricerca di perfezione. Visse nella
Tebaide fino al termine della sua lunghissima vita e seppellì il corpo
dell’eremita San Paolo di Tebe con l’aiuto di un leone.
Negli ultimi anni accolse presso di sé due monaci che l’accudirono nell’estrema vecchiaia; morì a 106 anni, il 17 gennaio del 356 e fu seppellito in un luogo segreto. La sua presenza aveva attirato anche qui tante persone desiderose di vita spirituale e tanti scelsero di essere monaci; così fra i monti della Tebaide (Alto Egitto) sorsero monasteri e il deserto si popolò di monaci; primi di quella moltitudine di uomini consacrati che in Oriente e in Occidente, intrapresero quel cammino da lui iniziato, ampliandolo e adattandolo alle esigenze dei tempi. I suoi discepoli tramandarono alla Chiesa la sua sapienza, raccolta in 120 detti e in 20 lettere; nella Lettera 8, Sant’Antonio scrisse ai suoi “Chiedete con cuore sincero quel grande Spirito di fuoco che io stesso ho ricevuto, ed esso vi sarà dato”. Nel 561 fu scoperto il suo sepolcro e le reliquie cominciarono un lungo viaggiare nel tempo, da Alessandria a Costantinopoli, fino in Francia nell’XI secolo a Motte-Saint-Didier, dove fu costruita una chiesa in suo onore.
Negli ultimi anni accolse presso di sé due monaci che l’accudirono nell’estrema vecchiaia; morì a 106 anni, il 17 gennaio del 356 e fu seppellito in un luogo segreto. La sua presenza aveva attirato anche qui tante persone desiderose di vita spirituale e tanti scelsero di essere monaci; così fra i monti della Tebaide (Alto Egitto) sorsero monasteri e il deserto si popolò di monaci; primi di quella moltitudine di uomini consacrati che in Oriente e in Occidente, intrapresero quel cammino da lui iniziato, ampliandolo e adattandolo alle esigenze dei tempi. I suoi discepoli tramandarono alla Chiesa la sua sapienza, raccolta in 120 detti e in 20 lettere; nella Lettera 8, Sant’Antonio scrisse ai suoi “Chiedete con cuore sincero quel grande Spirito di fuoco che io stesso ho ricevuto, ed esso vi sarà dato”. Nel 561 fu scoperto il suo sepolcro e le reliquie cominciarono un lungo viaggiare nel tempo, da Alessandria a Costantinopoli, fino in Francia nell’XI secolo a Motte-Saint-Didier, dove fu costruita una chiesa in suo onore.
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