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giovedì 19 giugno 2014

Metropolita Anthony Bloom (19/6/1914–4/8/2003): Parlare della morte ai morenti

Da Contacts, vol. 27, no. 89, 1975. Traduzione a cura di Tradizione Cristiana.

Il testo che presentiamo è tratto dalla trascrizione degli interventi seguiti dopo una conferenza tenuta dal vescovo Anthony sul tema “Come un vivente ritornato dai morti”.

Domanda: Sono uno studente di medicina a contatto con molte persone che moriranno senza saperlo o rifiutando di saperlo. Quale può essere il mio ruolo in quanto cristiano, dato che io stesso non sono ancora in grado di vivere ogni momento come l’ultimo?

Vescovo Anthony: Non si può rispondere in poche parole, perché non esiste una ricetta precisa. Inoltre, il problema del morente non si pone solo per il medico e per il prete, ma per tutti quelli che lo circondano. In questa situazione e in queste relazioni complesse, in cui il morente deve essere preparato a staccarsi dalla terra per entrare nella vita eterna, non c’è nessuno che sia tenuto a intervenire per la sua funzione. Il primo problema è: dobbiamo dire a una persona che la morte è in agguato? Penso che non possiamo buttare in faccia a qualcuno un’affermazione di questo tipo senza esprimersi con sfumature. Dire a qualcuno che non è affatto preparato: “Stai per morire”, rischia di gettarlo in una disperazione da cui sarete incapaci di tirarlo fuori. Non dire niente, significa destinare all’incoscienza una persona che ha diritto alla propria morte. In primo luogo dobbiamo capire che qui non stiamo preparando la gente a morire, ma ad entrare nella vita eterna. Non è quindi della morte ma della vita che dobbiamo parlare all’inizio.

Vorrei farvi un esempio. Ho conosciuto una persona che, attaccata dal cancro, è stata ricoverata in ospedale. Non sapeva ancora che la morte era dietro l’angolo, mentre quelli intorno a lui lo sapevano. “Che fare, ha detto, sono ammalato, non servo più a niente”. Ho risposto: “Ricordate, le ho sentito dire per dieci anni che era suo sogno che la vita rallentasse per avere il tempo di correggervi, in profondità. Lei non lo ha mai fatto. Dio lo ha fatto per lei: è malato, non ha alcuna responsabilità. Rifletta, riveda tutta la sua vita”. “Ma in che senso?”, mi ha chiesto. Allora gli ho spiegato che la malattia, come la morte, dipende da molteplici fattori, fisici, ma anche morali. “Ci sono pensieri negativi, degli stati d’animo che uccidono: il rancore uccide, la gelosia uccide. Mentre altri poteri distruggono in noi la vitalità e in fin dei conti la vita stessa. Ripensi quindi alla sua vita, faccia pace con tutti quelli che, intorno a lei, sono tesi nei suoi confronti, si liberi di ogni risentimento, da ogni odio, da ogni colpa, da tutto ciò che è distruttivo in lei. Poi vada nel passato e, anche lì, faccia la pace”.

Dopo diverse settimane quest’uomo mi disse: “Sa, è strano. Sono sempre più debole, sento che sto morendo, e non mi sono mai sentito così vivo”. Abbiamo continuato la riflessione e, più tardi ancora, disse: “Ho sempre pensato che la vita dipendesse da me, dall’integrità del mio corpo. Tuttavia, meno forza ho nel corpo, più mi rendo conto che sono una persona, indipendente da questo stato fisico. Io vivo, mentre il mio corpo sta morendo”. Fu così che abbiamo iniziato a parlare della sua morte, ed è entrato nella morte superando il morire in vita. È entrato nella morte sentendosi talmente vivo (nonostante la morte del suo corpo) che non aveva più paura di morire. Sapeva che la vita era in lui e che egli dipendeva solo da Dio. In quel momento, allora, si può parlare di morte, ma gettare in faccia a qualcuno una frase del tipo: “Si renda conto: è un cancro, morirà” è qualcosa di disumano e sbagliato.

Chi deve fare tutto questo? La persona che è più vicina al morente. Potrebbe essere il medico o l’infermiera, o la badante, potrebbe essere la moglie o il marito, un amico, chiunque. Anche il prete, naturalmente. Ma nessuno per la sua funzione: soltanto per la sua situazione concreta rispetto al morente - questo è di un’immensa importanza. Inoltre, deve essere una persona che non fuggirà, ma sarà pronta ad accettare le conseguenze di ciò che avrà detto.

Se vi presentate ad un paziente, vi sedete al suo capezzale e gli dite che, in un modo o nell’altro, improvvisamente o poco a poco, deve affrontare la morte, dovrete avere il coraggio di restare al suo fianco per tutto il tempo che sarà necessario. Dal momento in cui avrete dato questo colpo e al momento in cui la persona informata si sarà ripresa, dovrete rimanere lì. Dare il colpo e dire: “Vi lascio per un attimo, vi porto una tazza di tè”, significa lasciare qualcuno solo, abbandonato di fronte alla morte, e ciò può essere più di quanto quest’uomo sia in grado di sopportare senza essere profondamente ferito o affranto. Occorre saper stare accanto a quella persona, per un attimo o per ore, fino a quando emerga di nuovo alla vita. Occorre inoltre saper ritornare e parlare di nuovo della morte.

Uno dei motivi per cui penso che occorra parlare ad una persona della morte, una volta che l’abbiamo preparata, non a morire ma a vivere in modo diverso, non è perché si tratta soltanto della verità – questo è evidente – ma perché viene un momento in cui la persona che deve morire, sa che la morte sta giungendo. Se non le si dice nulla, allora si trova imprigionata in una menzogna. Non osa dire a quelli che le sono intorno: “Smettete questa commedia, lo sapete che sto morendo”. E gli altri non osano neppure parlargli. La solitudine può così diventare più pesante nel morente che la consapevolezza della morte che viene. Questo, ne sono certo, l’ho visto, l’ho sperimentato in modo molto ravvicinato. Occorre rompere questa ganga, rompere questo cerchio di ferro che rende la malattia e la morte molto più difficili.

Durante la sua ultima malattia, mia madre sapeva che stava per morire perché gliel’avevo detto. Due volte mi disse: “Che strano, sto morendo e mai siamo stati così felici insieme”. Il fatto di voler fare di ogni gesto e di ogni frase questo capolavoro in cui la vita sarebbe culminata se la morte fosse venuta nello stesso tempo, aveva dato, senza dubbio, alla nostra vita nel corso dei tre anni della malattia di mia madre, una profondità mai raggiunta in passato.

Questo, credo che possiamo farlo in ospedale o in medicina generale, quando andiamo a vedere dei pazienti. Ho avuto l’opportunità di frequentare dei pazienti per quindici anni, e non dico alla leggera. Quindi vorrei dire al nostro studente di medicina che deve imparare a non avere paura della verità, ma deve imparare a comunicare una presenza, a dare a chi sta morendo la certezza che ci sarà qualcuno accanto a lui fino all’ultimo momento e oltre quest’ultimo momento evidente della morte. Quando il morente cade in stato di incoscienza, non dobbiamo dire: “Ora non si rende conto più di nulla, possiamo lasciarlo morire nel suo angolo”.

Mi ricordo, durante la guerra, di un soldato che cadde in stato di incoscienza; il giovane pastore che si occupava di lui diceva, piangendo nel corridoio: “Non posso fare nulla per lui, non mi sente, non mi può più rispondere”. Gli ho detto: “Lei non sa che cosa sente, che cosa può giungergli. Ritorni nella sua camera, si sieda accanto a lui e gli legga l’Evangelo della risurrezione di Lazzaro”. È entrato, ha letto, quindi ha letto i quattro Evangeli, perché questo stato di incoscienza è durato per giorni. Ebbene, prima di morire, il soldato riprese coscienza e disse al pastore: “Non sono mai stato in grado di darle un segno, ma ho sentito tutto”. Tutto ciò che possiamo fare, quindi, è condividere. Ma non dobbiamo mai cercare di fuggire dalle nostre angosce, dimenticando che l’altro è in un’angoscia infinitamente più grande.

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